Anche se i genitori hanno dichiarato l’assenza di una correlazione tra il tragico gesto e vicende discriminatorie, Seid Visin aveva scritto tre anni fa un lungo post su Facebook in cui parlava del razzismo subito: “Ricordo che tutti mi amavano – si legge – Adesso sembra che si sia capovolto tutto”. E raccontava la vergogna “di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato”.
Troppo facile crogiolarsi nei propri buoni sentimenti quando la tristezza per il suicidio di un ragazzo come Seid Visin ci colpisce come un pugno nello stomaco, talmente facile che persino chi di quel suicidio è stato ispiratore e artefice non può restare indifferente.
Non sto parlando solo dei politici fascioleghisti di ogni merdoso livello che da sempre ci offrono razzismo in cambio di consenso elettorale, Salvini, Meloni, Gasparri, Zaia, La Russa e giù fino all’ultimo sindacuzzo dell’ultimo paesuzzo sperduto e tarato dalla consanguineità dei valligiani.
Sto parlando di tutti noi anime belle che dal razzismo non abbiamo nulla da guadagnare, noi pronti a difendere un gatto dal sadismo di un bambino ma che non abbiamo la forza e forse neppure la voglia di stendere un cordone sanitario a protezione di chi, tutti i giorni e sotto i nostri occhi, viene preso a calci come e peggio di quel gatto.
Il razzismo non si combatte con la costernazione tutta privata per le atroci morti di Seid Visin, di George Floyd e di innumerevoli altri.
Quella contro il razzismo è una guerra da combattere alzandosi in piedi a viso aperto e con ogni mezzo, cacciando via i razzisti dalle nostre amicizie, dai nostri fornitori, dai nostri clienti, dalle nostre aziende e, se ne abbiamo la forza fisica, anche dal nostro autobus e dal nostro ascensore.
Basta! Fino a quando ci importerà più del quieto vivere che del nostro prossimo nero, giallo, rosso o verde non avremo nessun diritto di piagnucolare davanti al televisore, perché quello non è un televisore… E’ uno specchio.