L’ascesa degli ulivi sulle Alpi e la presenza sempre maggiore di frutti esotici nei campi del Mezzogiorno confermano la tropicalizzazione delle coltivazioni italiane, mentre un nuovo “Made in Italy” conquista il mercato ortofrutticolo.
In occasione dell’apertura del Villaggio Coldiretti nella città di Palermo, è stato presentato lo studio “I tropicali italiani e gli effetti dei cambiamenti climatici” , dal quale emerge quanto la tropicalizzazione delle coltivazioni stia modificando i paesaggi nostrani. Ad esempio, la metà della produzione di pomodori e grano duro, colture tipiche delle aree mediterranee, è stata spostata nella Pianura Padana, mentre i vigneti hanno ormai raggiunto le Alpi.
Un 2022 da numeri record
Secondo i dati Isac CNR, in Italia i termometri hanno segnato un +1,07 °C rispetto alla media storica, mentre le precipitazioni si sono ridotte di oltre 1/3. Come si evince dai dati, il surriscaldamento è evidente su tutta la penisola italiana, sebbene tale fenomeno sia più evidente al Nord (+1,01 °C) rispetto al Sud (+0,85°C). Nel complesso, sulla base di quanto registrato sino a settembre, l’incremento maggiore ha interessato le temperature massime e non le minime. Inoltre, l’ultima estate non solo ha contribuito a catalogare l’Italia come il fulcro del riscaldamento globale, ma ha anche aggravato il problema della siccità, che mette sempre più spesso in crisi il settore agroalimentare, orientandolo verso una tropicalizzazione delle coltivazioni.
L’ulivo, una storia secolare
Ad oggi, in Italia ci sono circa 150 milioni di ulivi, la cui sopravvivenza viene messa a rischio sia dai cambiamenti climatici sia dai rincari legati al difficile momento storico. Infatti, negli ultimi tempi è sempre più difficile investire nell’olivicoltura, poiché i costi sono aumentati anche del 200% per le aziende olivicole.
“Gli ulivi plurisecolari sono custodi non solo di storia ma anche, probabilmente, di elementi che potrebbero aiutarci ad affrontare nel migliore dei modi il cambiamento climatico che stiamo vivendo.
Purtroppo circa 30 milioni di ulivi risultano ormai abbandonati e le conseguenze potrebbero essere decisamente gravi per la biodiversità di queste specie. Inoltre, tale perdita interessa anche la storia del nostro Paese, dal momento che l’olio è un alimento fondamentale della dieta mediterranea già a partire dalla civiltà romana. Basti pensare ai primi “Disciplinari di produzione”, scritti da Marco Porzio Catone (234-149 a.C.) e Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), nei quali sono descritte tecniche rimaste quasi invariate sino al XIX secolo.
Secoli di tradizioni hanno fatto sì che oggi l’Italia possa sia vantare 42 Dop e 7 Igp olivicole, corrispondenti al 40% delle certificazioni comunitarie, sia esportare circa il 55% della produzione, con un introito pari a 62 milioni di euro.
L’ascesa sulle Alpi
In genere rappresenta la flora del bacino Mediterraneo, ma negli ultimi dieci anni l’ulivo ha superato il 46° parallelo. Infatti, in provincia di Sondrio vivono ormai circa 10.000 piante, distribuite su oltre 30.000 m² di terreno. Un’attività, l’olivicoltura alpina, nata dall’esigenza di cercare nuove sfide, ma anche soluzioni a problematiche reali, quale è il cambiamento climatico.
La capacità dell’agricoltura è sempre stata quella di trovare l’innovazione nella tradizione, cercando di ottenere il meglio dai mutamenti economici e climatici.
Il Piemonte e la Valle d’Aosta sono state le ultime a cogliere quest’opportunità, mentre il Veneto e il Friuli vantano già una tradizione, soprattutto nella zona di Trieste. Non tutte le cultivar sono ancora idonee alla coltivazione in alta quota, ma un uliveto a 1200 m è oggi una realtà, che promette la produzione di un olio di alta qualità e con parametri nutrizionali unici.
Tropicalizzazione delle coltivazioni nel Mezzogiorno
Negli ultimi cinque anni le coltivazioni di frutti tropicali hanno occupato circa 1.200 ettari tra Puglia, Sicilia e Calabria. In particolare, in Sicilia si trovano oggi diverse varietà di banane, avocado, mango, frutto della passione e lo zapote nero. Invece, in Puglia sono sempre più comuni gli avocado, con 100.000 piante solo in Salento, e le bacche di Goji. Di recente sulle nostre coste si coltivano anche le melanzane thay, di origine thailandese, la canna da zucchero e l’annona, un frutto sudamericano ampiamente usato e apprezzato per la produzione di marmellate.
La tropicalizzazione delle coltivazioni non cambia solo il paesaggio, ma anche l’offerta sul mercato, che a sua volta si adatta alla domanda. Infatti, iniziata come attività di nicchia, quasi per curiosità, oggi la coltivazione di frutta tropicale si è ben affermata nelle nostre terre. Dai sondaggi risulta che 7 italiani su 10 cercano abitualmente banane, avocado e mango prodotti in Italia e sono disposti a spendere di più per comprare frutta esotica Made in Italy. Una preferenza, quest’ultima, giustificata anche dalle poche garanzie di sicurezza che abbiamo sugli alimenti importati.
Il fenomeno degli alberi esotici Made in Italy, spinto dall’impegno di tanti giovani agricoltori, è un esempio della capacità di innovazione delle imprese agricole italiane.
Ormai da tempo, nel Mezzogiorno molti giovani hanno preso parte a progetti di rivalutazione delle terre abbandonate, per valorizzarne il grande potenziale. Inoltre, le conseguenze del cambiamento climatico e il sempre maggiore scambio culturale come effetto dei fenomeni migratori, hanno contribuito a cambiare le scelte produttive delle aziende. Un approccio costruttivo, nonostante le difficoltà dettate anche dagli eventi meteorologici estremi, che ultimamente provocano danni ingenti; ad esempio, nel solo 2022 la filiera agroalimentare ha perso oltre 14 miliardi di euro.
Un paesaggio in evoluzione
Mentre il Meridione si tinge di colori accessi e sapori esotici, in Toscana si afferma la produzione di arachidi e i vigneti si spostano verso le montagne, al fresco. Infatti, l’incremento delle temperature sta profondamente alterando la distribuzione delle viti sul territorio, le quali ora prediligono i terreni sui 1200 metri di altezza. Inevitabilmente, queste migrazioni influenzano anche la stagione della vendemmia, ormai anticipata di un mese rispetto al tradizionale settembre, e infine il grado alcolico.
Insomma, la tropicalizzazione delle coltivazioni fotografa un Italia che cambia e si adatta alle nuove esigenze, arricchendo il proprio bagaglio culturale, ma perdendo centenarie tradizioni. Si, perché se da un lato nasce una nuova cultura nostrana, dall’altro in un futuro prossimo potremmo non trovare più sul mercato alcuni prodotti tipici del Made in Italy, le cui caratteristiche uniche sono legate soprattutto all’ambiente geografico.
Conosci la terra dei limoni in fiore,
dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure,
dal cielo azzurro spira un mite vento,
quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso,
la conosci forse?
Goethe scriveva così dell’Italia nel lontano 1795, dipingendo un paesaggio caratteristico nel nostro immaginario collettivo, nonché una tradizione che affonda le sue radici in secoli di storia e in generazioni impegnate a tenerne memoria.
Ma i tempi cambiano, così come le esigenze e le prospettive delle società attuali, costringendo l’uomo ad adattarsi per sopravvivere. E mentre come organismi viventi rispondiamo facilmente a un principio cardine della biologia, quello dell’adattamento, la nostra coscienza si riconosce a fatica in questa perdita di identità, che ci pone ancora troppe domande, ma fornisce decisamente poche risposte.