Trivelle nell’Adriatico: l’irresistibile fascino del gas

Il Disegno di Legge

Passano gli anni ma le proposte rimangono le stesse: questa volta a tornare alla ribalta sono le trivelle nell’Adriatico.

Nel terzo Consiglio dei Ministri del 4 novembre si è ripresentata la proposta, come Disegno di Legge, dell’ampliamento delle concessioni per le trivellazioni off-shore. Si tratta del “DL Aiuti ter”, che dovrebbe andare in soccorso alle imprese energivore, calmierando l’acquisto del gas fino al 75% del suo prezzo. Le zone interessate sono quelle del sud e medio Adriatico (sotto il 45° parallelo), del golfo di Napoli, Salerno e nei pressi delle Egadi. Insieme alla “riconferma” di alcuni pozzi, si pensa alla creazione di nuovi, posto che la loro capacità superi i 500 milioni di metri cubi.  Si parla di concessioni decennali a 138 piattaforme marine totali, il cui 40%, però, è attualmente non operativo. Per quanto riguarda i pozzi, quelli eroganti – quindi operativi – al momento sono 514 su 1298, quasi il 40%.

Accanto a questo ampliamento, il DL propone la riapertura delle attività nelle aree protette e una deroga del Pitesai. Quest’ultimo è l’ente che si occupa delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi, che rimangono circoscritte tra le 9 e le 12 miglia (19,3 km).

Una questione lunga sei anni

Il DL sulle concessioni per la trivellazione in mare evoca una discussione iniziata nel 2016, quando il governo era a traino PD con Matteo Renzi. Il 17 aprile infatti, ebbe luogo un referendum con oggetto proprio la deroga delle concessioni off-shore, che andò incontro ad un completo fallimento. Il quesito era il seguente:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?

Nonostante una schiacciante vittoria del “sì” (85,85%), solamente il 31,19% della popolazione avente diritto al voto si recò alle urne. Visto il non raggiungimento del quorum, le concessioni per trivellazioni non sono mutate: i lavori quindi possono proseguire fino ad esaurimento delle scorte del giacimento. Al contrario, si sarebbero dovute rispettare le scadenza da contratto, a prescindere dall’esaurimento del giacimento.

Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia, però, insieme alla Lega di Salvini, al tempo condusse una campagna a favore del “sì”, quindi della cessazione delle concessioni. I motivi addotti spalleggiavano le ragioni delle associazioni ambientaliste promotrici della consultazione popolare: il Coordinamento nazionale No Triv e l’Associazione A Sud ONLUS.

La domanda che sorge spontanea è quindi: cosa è cambiato rispetto al 2016? Quali motivazioni – economiche ed ambientali – sono mutate per arrivare ad una decisione così drastica (che non passa nemmeno per un referendum)?

Le motivazioni ambientali

Chi ha sostenuto le ragioni del “sì” si opponeva ad una pratica che con la sola estrazione di idrocarburi immetteva nell’ambiente grandi quantità di CO2. Ricordando poi gli obiettivi esposti nella COP21 (Parigi, 30 novembre-12 dicembre 2015), non sembrava una scelta che andasse nella stessa direzione. Gli idrocarburi, inoltre, secondo stime di quegli anni, ricoprivano il “solo” 10% del fabbisogno annuale nazionale.

Attualmente, stando ai numeri fornire dal MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) le riserve di gas certe, quindi “commercialmente prodotte”, corrispondono a 39,8 miliardi di m3. Di queste, solo 17,8 miliardi si troverebbero in mare.

La cifra è difficile da interpretare senza altri riferimenti. Si consideri che le riserve di gas si dividono in tre macro-gruppi (misurate in miliardi di m3): certe (39,8 appunto), probabili (44,5) e possibili (26,7). Questi tre numeri non vanno semplicemente sommati, ma devono essere “pesati” seguendo un calcolo specifico. Il punto è che, basandosi solamente sulle riserve certe, concluderemmo che 39,8 è una cifra scarsa: in un solo anno consumiamo 70-75 miliardi di m3.

In ultima battuta, la posizione rispetto alla trivellazione in mare ha sempre rappresentato una precisa posizione politica in termini di energia. Scegliere di non sfruttare le riserve di fossili è infatti un modo per costringersi ad intraprendere la via delle energie rinnovabili. Via che nel corso degli anni però, sembra essere sempre meno battuta.

Ritorno alle cattive abitudini

Il dibattito intorno allo sfruttamento delle riserve di gas non si è chiaramente arrestato dal 2016 ad oggi. Con lo scoppio della guerra in Ucraina – purtroppo – l’estrazione di gas dal sottosuolo italiano è tornata ad essere un’opzione. La domanda da porsi è: in questi anni, in cui i rischi legati all’estrazione sono tristemente conosciuti, che passi in avanti sono stati fatti?

È chiaro che in una situazione di emergenza data dalla guerra non ci si può aspettare una risposta che sia completamente “green”. Il problema è che in momenti di non-emergenza, il tema non sembra essere stato affrontato in modo concreto. Indicativi della poca dimestichezza che abbiamo con le fonti rinnovabili sono le reazioni immediate all’aumento dei prezzi del gas decisi dalla Russia.

In Italia, appunto, l’unica opzione sul tavolo è quella di intensificare il lavoro sui giacimenti . In Germania la proposta è stata addirittura peggiore. Nell’estate è stata infatti riattivata la centrale a carbone di Mehrum, nella periferia di Hannover. Nel pieno di una campagna europea a favore delle rinnovabili, il Paese continua a puntare sul combustibile fossile (così come prima dello scoppio della guerra).

Secondo l’ultimo rapporto disponibile del WWF, la Germania è uno dei quattro maggiori produttori di lignite e uno dei principali consumatori (71,3 milioni di TEP). Un rapporto quindi con il carbone problematico in quanto – anche – motore di un guadagno economico.

Diventa quindi difficile recidere una dipendenza energetica fruttuosa e a portata di mano, in particolare nel pieno di una crisi energetica mondiale.

Ragionare in tempi di crisi

Il cuore della questione sta anche nel chiedersi se la riapertura dei giacimenti di gas o delle centrali a carbone sia la via da seguire: ovviamente non è così. Il problema, come anticipato, si pone a monte: in tempi di pace (su suolo europeo almeno) non si sono messe in campo delle vere misure per provare ad uscire dalla dipendenza da fonti non rinnovabili. Nello stato di cose attuale la soluzione più sensata diventa anche quella di più difficile realizzazione.

È auspicabile, ad esempio, dare credito ad una proposta recentemente presa in considerazione dalla Commissione Europea: il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello delle fonti rinnovabili. Attualmente esiste un unico prezzo per l’energia, determinato dalla fonte “più costosa”. Nonostante si cerchi di sfruttare al massimo l’energia verde, questa è insufficiente a coprire il 100% della richiesta. Il gap viene quindi colmato utilizzando combustibili fossili che quindi, con un’azione retroattiva, fanno lievitare il prezzo delle fonti rinnovabili (di partenza molto inferiore a quello del gas). Questo schema servirebbe a favorire la produzione e il consumo di fonti di energia rinnovabili, ma, in tempi di crisi, converrebbe agire in maniera più decisa. Tagliare questo legame tra le due fonti non deve essere solo misura per allentare la pressione economica sull’energia: si ricadrebbe nell’empasse di sempre.

L’obiettivo a breve termine è certamente quello di calmierare i prezzi dell’energia per permetterne l’accesso a tutti. L’obiettivo a lungo termine che invece va imposto, è quello di una reale spinta per lo studio di un sistema che garantisca il massimo sfruttamento delle fonti rinnovabili (sempre considerando i loro limiti oggettivi), magari a partire da un incentivo sul piano economico per il loro acquisto.

Sfruttare quindi la crisi come spinta al cambiamento, accettando uno sforzo iniziale (inevitabile), sapendo si tratti di un investimento per il futuro collettivo.

Il rischio, altrimenti, è quello di un “calendario energetico” che si trova ad affrontare continuamente gli stessi problemi, dall’aumento delle temperature alla produzione massiva di CO2. Trovarsi a parlare tutti gli anni, alle Conference of Parties (l’analisi di quella in corso disponibile qui), di aspettative tradite e traguardi non raggiunti.

 

Alice Migliavacca

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