Sono passate due settimane dall’inizio del conflitto in Ucraina, due anni dall’inizio della pandemia. Prossimi alla fine dello “stato d’emergenza”, mentre lo spettro del nucleare rientra prepotentemente di tendenza, per i Millenials è arrivato il momento di compiere trent’anni. Un’età in cui, premessa retorica ma necessaria, si iniziano a caricare i piatti della proverbiale bilancia. Una tappa raggiunta accompagnati da una pandemia che in un modo o nell’altro, ha rappresentato il propellente o l’anestetico proprio per questa pesa. Non a caso Chuck Palhaniuk, con la letteratura e David Fincher, con il cinema, scelgono due trentenni, autodidatti combattenti a mani nude, come protagonisti di uno delle più grandi opere cult della storia recente. In Fight Club i personaggi di Brad Pitt ed Edward Norton stanno affrontando il primo, durissimo, check rispetto facoltà mentali e fisiche.
Rimane qualcosa di utile da estrapolare dal cinico messaggio di uno dei più controversi cult degli anni ’90?
IL PEGGIORE DEI MONDI POSSIBILI?
Chiunque abbia calpestato questa terra, in qualsiasi epoca storica, ha subito la tentazione di considerare la propria miseria personale come unica, irripetibile e tendenzialmente superiore a quella del sempre “fortunato” prossimo. Qualcuno avrebbe anche avuto ragione.
Determinati eventi storici, però, rendono oggettivamente necessario interrogarsi su che tipi di consenso e dissenso manifestare, lavorando sulle proprie limitazioni percettive che urlano al “peggior momento storico mai vissuto”. In questi frangenti, tradizionalmente, si cerca e si trova un “manifesto generazionale” un’opera che con un linguaggio mai troppo tecnico, mai troppo divulgativo, in grado di riassumere il punto di vista, tradizionalmente, arrabbiato di persone e popoli anagraficamente vicini, posti davanti la stessa sfida.
Quando l’occasione lo permette, diventa particolarmente interessante prendere in prestito il manifesto di una generazione per verificarne l’invecchiamento su un’altra successiva, proprio come si farebbe con un buon vino. Fight Club è uno di questi singolari casi, il manifesto generazionale del trentenne di fini anni ’90, in grado di fornire spunti utili nonostante nasca prima di smartphone e social network.
NON SOLO CAZZOTTI
Prima libro e poi film, l’opera mette in scena una storia di mortalità, quotidianità e rinascita (?) impiegando la boxe a mani nude per incardinare e definire “i figli di mezzo della storia” senza grande depressione e grande guerra, chi compieva trent’anni mentre il film arrivava nelle sale. Caratteristiche che sembravano sopravvivere e accentuarsi per i “Millenials“, chi compie oggi trent’anni. Solo che alla fine la grande depressione questa generazione l’ha incontrata e ora è obbligata a fare i conti, quantomeno, con l’idea di guerra, se grande lo capiremo presto. Ecco perché chi è nato negli anni ’90 ha un rapporto strano con Figh Club. Un prodotto scoperto troppo presto, considerando la storia e il disagio che vuole raccontare ma che, proprio per questo, per alcuni ha rappresentato l’equivalente auto distruttivo e sporco di sangue della coperta di Linus.
Fight Club fornisce risposte disincantate e, per certi versi, nichiliste agli interrogativi tipici di un’età complessa, vissuta in un momento storico molto più complesso. Cosa funziona, quindi, del modello Tyler Durden (un Brad Pitt in stato di grazia nella versione cinematografica)? Quali regole restano valide? Principalmente, tre messaggi veicolati da altrettante citazioni.
“Le cose che possiedi finiscono per possederti”.
Può tornare utile l’aspetto, paradossalmente, più pop di Fight Club: l’anti materialismo. Certo che saremmo in grado di organizzare uno zaino portando giusto l’essenziale con noi come laptop, la giacca tecnica, il telefono, la macchina con cui scappare… no siamo già fuori dal perimetro, stiamo pensando a troppa roba “essenziale“. Piace sempre definirsi antimaterialisti, tanto basta che quelle due, tre cose restino intatte, per il resto tutto potrebbe bruciare, no? Oppure è altrettanto semplice essere antimaterialisti quando si da peso solo ad oggetti dal bassissimo valore di mercato ma dal grandissimo valore affettivo, senza considerare che potrebbero andare perdute o distrutte anche quelle.
“Ficcarti le penne nel culo non fa di te una gallina”.
Può tornare utile Fight Club per lavorare sull’auto percezione e su quanto si voglia, davvero, trasmettere di sé. L’area temporale che perimetra i trent’anni è costellata da “infiocchettamenti” di varia natura. Motivazione chimicamente progettate per spiegare il perché non ci si interessi di politica ma si abbia un’opinione su tutto, o perché non viene supportato il lavoro delle ONG. Alibi forniti a noi stessi quando lasciamo una persona o un posto di lavoro. Percorsi lavorativi o accademici edulcorati nel raccontarli davanti ad una bella birra. La responsabilità delle proprie insoddisfazioni attribuite all’educazione ricevuta o all’incrinato mondo del lavoro. Job description iperdidascaliche per celare impieghi poco attraenti per i palati fini. L’esatta ragione per cui questa guerra in Ucraina deve, oggettivamente fare più paura di tutte le altre “perché è diversa”.
“Mi hai incontrato in un momento molto particolare della mia vita”.
Tutti hanno la loro storia da raccontare. I trent’anni rappresentano inevitabilmente un’età frangiflutto in cui si infrangono i destini più diversi, già trafitti da personali tragedie glorie e sconfitte, in grado di generare frequenze radio corrispondenti. Sintonizzarsi diventa, dunque, essenziale per interagire, comprendere e spiegare il viaggio intrapreso fino a quel punto. In Fight Club, la storia d’amore è una tela bianca segnata dalle tinte forti delle fragilità dei protagonisti. Un campo cromatico che va dall’insonnia all’anarco-terrorismo, attraversando quotidianità incrinate ma ridotte all’essenziale.
COSA RIMANE
Per quanto possa sembrare un punto di vista egocentrico, occidentalista e vigliacco, l’invasione dell’Ucraina arriva in un frangente generazione molto delicato, mettendo nuovamente la guerra (vicina) sul banco, obbligando a guardare anche chi era riuscito, piò o mento volutamente, a distogliere lo sguardo durante gli ultimi vent’anni.
Chi ha, davvero, il coraggio di guardare attentamente può scorgere l’onesta peculiarità di questo conflitto: ad essere schiacciate dai mezzi di guerra russi sono macchine più simile alle nostre, in strade più simili alle nostre, producendo vittime e profughi che ci somigliano di più. Patetico? Sì. Ciò nonostante, l’idea di un conflitto che manda in aria quello che stai costruendo, fa tanta tanta paura. Poco importa se i trent’anni del coetaneo in questione, siano al centro di un bivio terribile: restare e combattere contro l’invasore o abbandonare la casa per poter ricominciare il prima possibile altrove.
Quel trentenne, che ci somiglia di più, obbliga a porsi domande. Cosa farei? Dove andrei? La persona che amo verrebbe con me? Domande che sembrano demoni di un’epoca antica, mostri pronti a divorarci dal buio del passato. Quello stesso anfratto oscuro in cui, fino a due anni fa, si era nascosta “l’epidemia”, nonostante non siano mai sparite dal mondo ma relegate a zone in cui “quelle cose capitano”. Come può essere superato un simile orizzonte emotivo? Come farebbe Tyler, fermandoci prima dell’ultimo atto del film, però, sia chiaro.
Alessio Briguglio