Trattato sul commercio di armi: al giro d’affari non importa

Trattato sul commercio di armi

Il Trattato sul commercio di armi, che ne regolamenta il flusso legandolo strettamente al diritto internazionale, viene ormai apertamente ignorato.
Con conseguenze devastanti

Il Trattato sul commercio di armi (Arms Trade TreatyATT) fu pensato come strumento per contribuire a pace, stabilità e sicurezza.
Istituito dall’Assemblea Generale dell’ONU il 2 aprile 2013, grazie al voto favorevole di 155 Stati, entrò ufficialmente in vigore il 24 dicembre dell’anno successivo.

Ad oggi, si tratta del “primo strumento giuridico di portata globale che stabilisce dei criteri per l’autorizzazione (o proibizione) di trasferimenti di armi convenzionali“, e conta 115 Stati membri e 27 firmatari.
Tra questi, si trovano i dieci principali esportatori di armi (eccetto la Russia), che coprono da soli il 90% delle tratte commerciali.

Tuttavia, mentre oggi la comunità internazionale si trova a fronteggiare tre grandi conflitti in Medioriente, Myanmar e Sudan, il Trattato sta venendo aggirato in diversi modi dai Paesi esportatori.
Una situazione denunciata da Amnesty International in occasione della decima conferenza degli Stati membri del Trattato sul commercio di armi, attualmente in corso a Ginevra.

Nonostante i passi avanti, numerosi governi continuano a violare clamorosamente le regole del Trattato, causando un’enorme perdita di vite umane nelle zone di conflitto.
È giunto il momento che gli Stati rispettino i loro obblighi giuridici, in modo da impedire i flussi di armi verso Stati conosciuti per poterle usare per compiere genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Così come di armi che potrebbero essere usate per commettere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario

Israele: nessun embargo, nonostante “schiaccianti prove di crimini di guerra”

Il Trattato sul commercio di armi non ostacola l’incessante trasferimento illegale di forniture all’esercito di Israele.
Ciò rappresenta, secondo Amnesty International – che da tempo chiede un embargo totale verso Israele e i gruppi armati palestinesi – un “evidente esempio di quanto gli Stati membri del Trattato non lo applichino integralmente e di quanto gli Stati firmatari ne indeboliscano obiettivi e principi”.

Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, Israele ha ricevuto enorme sostegno sotto forma di esportazione di armi, tra cui aerei, bombe guidate e missili. Fornite principalmente da Stati Uniti (65,6%), Germania (29,7%) e Italia (4,7%).
Di conseguenza, Israele è stato in grado di condurre “una delle campagne aeree più intense e distruttive della storia recente“. Ad oggi, si contano 37.000 vittime nel conflitto a Gaza, delle quali – come afferma il ministero della Salute – il 70% sono bambini e donne.

Molte sono state le richieste, da parte di attivisti e politici (alleati di Israele e non), di sospensione dell’esportazione di armi, in quanto il governo israeliano non starebbe facendo abbastanza per proteggere la vita dei civili e garantire l’arrivo di aiuti umanitari.
Inoltre, il Trattato sul commercio di armi vieta esplicitamente la fornitura ad altri Paesi nei casi in cui ciò possa causare o facilitare gravi violazioni dei diritti umani.

E riguardo ciò, Amnesty ha documentato almeno due crimini di guerra compiuti da Israele con armi importate.

Per quanto riguarda l’Italia (l’unico dei tre Stati esportatori ad essere effettivamente membro del Trattato, mentre USA e Germania sono solo firmatari), il ministero della Difesa sostiene di non aver venduto materiale che potesse essere usato dall’esercito israeliano contro i civili.




Per di più, durante la decima conferenza di questi giorni, il portavoce della delegazione italiana Giorgio Aliberti (direttore dell’Autorità NazionaleUAMA) ha dichiarato pieno sostegno agli obiettivi del Trattato, tra cui la necessità del rispetto degli obblighi in materia di trasparenza e rapporti.

Il “commercio globale di morte” in Sudan aggira diritto internazionale

Nell’aprile 2023, il conflitto tra le Forze armate sudanesi regolari e le Forze paramilitari di supporto rapido ha subito un’escalation che ha gettato il Sudan in una grave crisi umanitaria.
Ad oggi, si contano 16.650 vittime e oltre 11 milioni di sfollati interni. Inoltre, il rischio di carestia è stato giudicato immediato.

Per cercare di fermare il trasferimento illegale di armi in Sudan, e proteggere quindi la vita dei civili, il Consiglio di sicurezza sulle armi ha imposto un embargo sulle armi destinate alla regione sudanese del Darfur.
Tuttavia, organizzazioni umanitarie come Amnesty continuano a documentare forniture di munizioni ed equipaggiamenti al Sudan, in parte dirottate nel Darfur, da parte di Stati membri del Trattato, come Cina e Serbia, e da Stati firmatari, come Turchia ed Emirati Arabi Uniti.

La nostra ricerca dimostra chele armi che entrano in Sudan sono finite nelle mani di gruppi armati accusati di violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani. Abbiamo tracciato metodicamente una serie di armi letali che vengono utilizzate dalle parti in conflitto.

È evidente che il vigente embargo sulle armi, applicabile ad oggi solo al Darfur, è completamente inadeguato e che deve essere esteso a tutto il Sudan.
Con la minaccia incombente della carestia, il mondo non può continuare a ignorare la situazione

Non solo l’embargo dovrebbe essere esteso a tutto il Sudan, ma dovrebbe riguardare uno spettro molto ampio di armi.
Infatti, secondo la documentazione commerciale del flusso di armi analizzata da Amnesty International, aziende in Turchia, Cina, Russia, Emirati Arabi e Serbia continuano a produrre armi leggere, fucili, carabine, pistole a salve e relative munizioni. Queste, normalmente destinate al mercato civile, possono essere trasformate in armi letali e dirottate verso forze governative e gruppi armati.

Sebbene l’embargo non riguardi tutto il Sudan, ma solo il Darfur, l’esportazione rappresenta una grave violazione del Trattato sul Commercio di Armi, che stabilisce il divieto del commercio verso Stati nei quali le armi potrebbero essere usate per la commissione di atti di genocidio, crimini contro l’umanità o violazioni delle Convenzione di Ginevra.

Myanmar: il trasferimento illegale di armi vale più di 1 miliardo

Il Myanmar si trova in una situazione di grave conflitto interno dal 2021, quando la giunta militare prese il potere con un golpe.
Da quel momento, secondo il Relatore speciale delle Nazioni Unite, il Paese ha importato armi, prodotti a doppio uso, equipaggiamento e materiale grezzo dal valore di almeno 1 miliardo di dollari. Il principale fornitore risulta essere la Cina, insieme a Russia ed Emirati Arabi.

La fornitura più importante per il Myanmar è quella di carburante.
Nel solo 2023, sono state vendute all’aviazione del Paese almeno 67.000 tonnellate di carburante. E, nonostante le sanzioni imposte da USA e UE e le pressioni esercitate su aziende e compagnie di navigazione, le spedizioni sono proseguite nel 2024.

Queste esportazioni, come nei casi precedenti, trasgrediscono agli articoli 6 e 7 del Trattato sul commercio di armi. Difatti, come ha evidenziato ancora Amnesty International, le armi acquistate sono state utilizzate in violazione del diritto internazionale.

Nei tre anni successivi al colpo di stato, i militari di Myanmar hanno usato queste armi per attaccare ripetutamente civili e obiettivi civili, spesso distruggendo o danneggiando scuole, luoghi di culto e importanti infrastrutture

“Innumerevoli vite umane perse”: gli Stati rispettino il Trattato sul commercio di armi

Il giro d’affari da miliardi di dollari che viene generato dal commercio di armi spinge molti Stati ad aggirare i loro obblighi internazionali.

Secondo il Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace), nel 2023, le spese militari complessive sono aumentate per il nono anno consecutivo, raggiungendo il totale mai registrato di 2,4 trilioni di dollari.
Parte di questi trasferimenti, effettuati da Stati membri o firmatari, è svolta in violazione del Trattato sul commercio di armi.

Quella del “commercio di morte” è una piaga contro cui le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo, tra cui Amnesty International, si battono da decenni.
Già a partire dai primi anni ’90, le ONG attivarono una campagnaper chiedere norme rigorose e giuridicamente vincolanti sui trasferimenti internazionali di armi, con l’obiettivo di impedire i flussi di armi che alimentano atrocità“.
In risposta all’emergenza venne istituito il Trattato sul commercio di armi. Che tuttavia non viene pienamente applicato e rispettato.

Ecco perché oggi, in occasione della decima conferenza degli Stati membri, l’appello perché i flussi di armi siano regolamentati e impediti torna con forza.

Innumerevoli vite umane sono state perse a causa di queste armi pericolose.
Gli Stati parte e gli Stati firmatati non possono più venir meno ai loro obblighi. Nell’approssimarsi del decimo anniversario del Trattato, essi devono rispettarlo per davvero e ridurre le sofferenze umane.
Devono farlo ora

Giulia Calvani

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