Dagli orrori della tratta all’angoscia dell’isolamento. E’ quanto rivela il rapporto di Human Rights Watch, “You pray for death: Trafficking of Women and Girls in Nigeria”, in base al quale le misure restrittive del governo nigeriano, cui sono sottoposte per la loro sicurezza le donne scampate al traffico di esseri umani, sono talmente stringenti da rendere impossibile per le vittime ricostruire le proprie esistenze.
Il resoconto, che prende in esame i casi di 76 donne, descrive dettagliatamente i problemi delle recluse nei centri-rifugio. Quel che emerge è una condizione claustrofobica e sfibrante, in cui persone già gravemente traumatizzate si ritrovano nell’impossibilità di contattare le proprie famiglie, in assenza del sostegno necessario alle cure mediche e al reinserimento sociale, private della loro libertà per mesi e mesi. In pratica, uno stato di detenzione, cui il governo nigeriano si appoggia eccessivamente, secondo gli attivisti, nell’ambito delle rilevanti contromisure che ha intrapreso per contrastare la piaga della tratta.
Attirate con false promesse attraverso il deserto nella morsa dello sfruttamento
Dalla Nigeria, spesso con la falsa promessa d’un lavoro sicuro, le vittime sono solite essere condotte attraverso il deserto del Niger: di lì raggiungono la Libia, dove alcune di loro finiscono col superare i confini del continente africano e arrivare sulle nostre coste.
La proposta di un impiego, ad esempio, come domestica in Libia spinge la vittima ad affrontare il pericoloso tragitto nel deserto, per poi arrivare a destinazione e ritrovarsi segregata in una stanza, minacciata e privata del cibo per giorni. Il motivo addotto è il “debito” che avrebbe contratto per le spese di viaggio; in realtà, è un modo per costringerla a prostituirsi, spesso senza protezioni, col rischio della gravidanza e dell’aborto forzato.
Rapite e abusate per arricchire i trafficanti di esseri umani: il 23% sono bambine
Ed è solo l’inizio dell’incubo. Una sopravvissuta racconta di essere stata venduta a un uomo che la sfruttava sessualmente; è riuscita a scappare, ma è stata rapita da membri di un gruppo terroristico che l’hanno trasferita in una prigione sotterranea e costretta a sposare un estraneo che ne abusava. Liberata dai militari libici dopo tre anni di calvario, è stata rimpatriata in Nigeria, dove il governo la sottopone alle misure di protezione: ovvero, i centri-rifugio. Qui le condizioni psicologiche della vittima degenerano, isolata ad ascoltare i suoi stessi ricordi senza poter riabbracciare i parenti, senza le cure adeguate e senza prospettive.
Altre donne vengono attirate nello stesso modo in diversi Paesi, dove si ripete il medesimo meccanismo. La ragazza, a volte, è appena quattordicenne: in base all’allarme lanciato recentemente dall’Unicef, il 23% delle vittime di tratta è rappresentato da bambine e adolescenti. I soldi che la vittima riceve in cambio dello sfruttamento sessuale vanno alla figura che l’aveva reclutata con l’inganno, la quale è a sua volta in combutta con i trafficanti.
Da ricattate a detenute
Talvolta cambiano le modalità di ricatto, e anziché di fronte alla minaccia fisica la ragazza si ritrova al cospetto di un sedicente sciamano, che usa l’arma della maledizione o del voodoo per costringere la vittima a prostituirsi. I “debiti” che le donne sono accusate d’aver contratto col viaggio variano: 1.000, 2.000 dollari, a volte anche 4.000 o più.
Appare chiaro come una misura di detenzione di fatto non sia idonea ad affrontare le problematiche di una persona che ha vissuto per anni in simili condizioni, soprattutto in assenza di valide iniziative per il reinserimento sociale. Le autorità nigeriane si trovano quindi oggi nella difficile situazione di dover garantire da un lato la protezione e dall’altro l’assistenza e l’integrazione delle vittime: una sfida difficile, ma indispensabile a garantire la tutela psicofisica di persone sottoposte a trattamenti tanto inumani.
Camillo Maffia