La crisi finanziaria dell’azienda che garantisce il trasporto pubblico urbano ed extraurbano nel torinese, GTT, quasi 5mila dipendenti, è una delle maggiori patate bollenti che Chiara Appendino ha trovato sulla sua scrivania di sindaca eletta ormai quasi due anni fa.
Problema aggravato da un’inchiesta della magistratura che l’anno scorso ha colpito i vertici societari, accusati di un falso in bilancio da circa 20 milioni di euro. Ma da gennaio, con l’approvazione del piano industriale 2018-2021, per la sindaca Appendino è iniziata la ‘Rivoluzione GTT’.
“Ecco come rilanciamo il trasporto pubblico”
è il sottotitolo dell’articolo pubblicato dalla sindaca sul suo blog, con tanto di video esplicativo di un minuto, hasthtag (#Torinoriparte) e citazione finale a effetto:
“Le persone che dicono ‘non si può fare’ sono parte del problema. Anzi sono esse stesse il problema”
(Mikael Colville-Andersen)
Centinaia di nuovi mezzi, una riorganizzazione delle linee al servizio del cittadino, un miglioramento della qualità dell’aria grazie ai nuovi tram e ai bus ecologici sono i punti su cui l’amministrazione 5 Stelle centra la presentazione del piano. PuntoCritico ha analizzato il piano per capire se sia effettivamente tutto rose e fiori.
Secondo gli estensori del piano approvato a gennaio il fabbisogno di GTT ammonta a circa 190 milioni di euro. Una somma di denaro enorme che serve alla società per estinguere i debiti nei confronti dei fornitori, delle banche, perfino dell’erario (la società deve tra l’altro oltre 20 milioni di trattenute IRPEF prelevate dalle buste paga dei dipendenti ma non versate al fisco), per acquistare nuovi mezzi, garantire la manutenzione dei vecchi, intervenire su una rete di superficie che risale agli anni ’80 e potenziare tram e metro. Una voragine apertasi nei conti della GTT – questa la spiegazione contenuta nel testo – per le difficoltà nel farsi pagare dai finanziatori pubblici (l’Agenzia della Mobilità piemontese ad esempio secondo il Comune deve 116 milioni di euro a GTT, di cui 71 contestati) e il conseguente accumularsi dei debiti nei confronti dei fornitori e delle banche, a cui l’azienda di trasporto ha dovuto rivolgersi ottenendo liquidità a condizioni svantaggiose. E che il Comune deve chiudere per evitare all’azienda una fine drammatica e riconquistare l’utenza recuperando una parte dei ricavi da traffico persi a causa dei disservizi. Anche se è chiaro che l’origine primordiale di questa crisi risale ancora al buco di alcuni miliardi creato nelle casse del Comune dagli investimenti per i Giochi Invernali del 2006. Vediamo come GTT e il suo azionista pubblico pensano di recuperare questa enorme cifra.
Circa 60 milioni dovrebbero essere ottenuti attraverso manovre contabili, in sostanza rimodulando le scadenze delle rate dei debiti. E così si scende a 130, che verrebbero recuperati attraverso una revisione della rete e un intervento drastico sul costo del lavoro. Per quanto riguarda la rete il piano prevede una riduzione del numero e della percorrenza delle linee su gomma (-4 milioni di chilometri l’anno sul servizio urbano), parzialmente compensata da un potenziamento del trasporto su ferro (metro e tram, +1 milione di chilometri di corse della metro), un aumento delle tratte date in appalto a ditte esterne a costi minori (da 5 a 8 milioni di chilometri l’anno). A queste misure si aggiungerebbero gli effetti dell’arrivo di centinaia di nuovi mezzi, che dovrebbero far diminuire i costi di manutenzione. I mezzi dovrebbero essere acquisiti con un pacchetto che comprende anche il service di manutenzione, una soluzione molto adottata, ma che si è visto in altre città è meno conveniente di quanto possa sembrare.
Di solito infatti il service per la manutenzione ha una durata (in questo caso 10 anni), al termine della quale i mezzi vengono presi in carico dalle officine dell’acquirente. Che di solito si vedono arrivare mezzi a cui negli anni precedenti è stata fatta una manutenzione al risparmio, con le immaginabili conseguenze. Alla riduzione del servizio corrisponderanno costi più alti, dal momento che il piano prevede anche una rimodulazione delle tariffe (eufemismo per ‘aumento del biglietto’), novità a cui si aggiungerà anche la creazione di nuove aree di sosta pagamento (un euro l’ora), 7mila posti (eredità della giunta Fassino), che potrebbero anche raddoppiare. Per fare cassa poi potrebbero essere venduti alcuni immobili, in parte depositi ed edifici inutilizzati, altri invece attualmente in uso.
Veniamo ai lavoratori. Qui dovrebbero arrivare il blocco del turn over e due procedure di licenziamento. La prima è già partita nel 2017: si tratta di 500 esuberi gestiti con la procedura dell’accompagnamento alla pensione, di cui più di metà già oggi non sono più in servizio e i rimanenti dovrebbero uscire entro breve. La seconda invece sarebbe un licenziamento collettivo vero e proprio, senza accompagnamento alla pensione, per 260 dipendenti in particolare nei settori manutenzione, parcheggi e servizi centrali. Nel complesso dunque una riduzione degli organici di quasi 700 unità su 4700 (750 esuberi da cui detrarre 85 assunzioni previste entro il 2019), che dovrebbe creare un risparmio di oltre 20 milioni di euro a regime, 13 dei quali provenienti dai 260 licenziamenti. Un’operazione quest’ultima con un impatto sociale pesante, ragion per cui il piano lascia al Comune la possibilità di indicare soluzioni alternative, purché non incidano sull’equilibrio dei conti. ‘Guarda caso 13 milioni è il costo del premio di produzione per tre anni e non ci sarebbe da stupirsi se l’Azienda, al momento di licenziare i 260, proponesse uno scambio: rinunciare al premio per evitare i licenziamenti’.
Proprio l’analisi dei numeri contenuti nel piano in merito al costo del lavoro permettono di cominciare a mettere a fuoco eventuali effetti dell’avvicendamento avvenuto due anni fa ai vertici del Comune. Dal 2013 al 2016 il costo del lavoro è diminuito di circa 13,5 milioni di euro, una riduzione che pesa sulla giunta Fassino, visto che la Appendino si è insediata nel luglio 2016. Ma dal 2017 al 2021 la riduzione prevista è oltre 20 milioni (qualcuno dice 24), nonostante il fatto che nel 2016 siano scattati gli aumenti retributivi conseguenti al rinnovo contrattuale degli autoferrotranvieri, firmato alla fine del 2015 dopo 7 anni di blocco degli stipendi. E’ uno schema che ritroviamo anche analizzando la gestione della posizione finanziaria di GTT.
Tra il 2014 e il 2016 la giunta Fassino ha ridotto i debiti bancari a breve termine da 90 a 80 milioni di euro, quelli a medio e lungo termine da 73 a 49 milioni e infine i debiti verso altri finanziatori (Iveco Finanziaria, del Gruppo FIAT) da 24 a 14. La giunta Appendino prevede di mantenere sostanzialmente allo stesso livello i debiti a breve termine, ma di ridurre drasticamente l’indebitamento a medio e lungo termine a 12 milioni entro il 2021 e quello verso gli altri finanziatori da 14 a 8, pure in presenza di un piano di investimenti poderoso per l’acquisto di quasi 500 mezzi tra bus e tram. Il che dovrebbe voler dire che finanzierà il proprio sviluppo con risorse proprie. Che cosa significa? Per un’azienda di trasporto, che per legge non può ricavare più del 35% dei suoi proventi dai biglietti, e che riceve il restante 65% dal Comune e dalla Regione, in un quadro di costante erosione del finanziamento, vuol dire che il ‘salvataggio’ dell’azienda di trasporto pubblico verrebbe pagato perlopiù dai lavoratori e dai comuni cittadini torinesi, nella duplice veste di dipendenti e utenti, ma anche di contribuenti.
Peraltro senza che la lettura del piano industriale individui una prospettiva chiara di rilancio del trasporto pubblico torinese. La questione già citata della manutenzione è emblematica: si rimanda il problema di 10 anni affidandola a un service privato, pagando una maggiorazione del 60% sul prezzo degli autobus (sulla prossima tranche di 178 mezzi, sono 51,5 milioni il costo dei bus e 80 il totale), col rischio di trovarsi tra 10 anni con la GTT che deve prendersi in carico dei mezzi ormai inservibili.
‘Il piano approvato a gennaio in realtà è un vecchio progetto dell’ex direttore del personale, che risale ormai a parecchi anni fa. Quello che non è chiaro è se veramente pensano di realizzarlo oppure se presentarlo è solo un modo per prendere tempo.
Prendiamo la questione delle esternalizzazioni. Da una parte si scrive che verranno dati fuori altri 3 milioni di chilometri di percorrenza, in particolare a Ca Nova. Dall’altra si scopre proprio in questi giorni che Ca Nova solo nel deposito Gerbido sta restituendo circa 30 turni perché non ha uomini e mezzi a sufficienza per coprirli. A una quindicina di autisti non è stato confermato il contratto’.
Dunque dietro la ‘Rivoluzione GTT’ in realtà appare un piano di tagli che non solo non è una novità, ma anzi è un’oggettiva accelerazione della ‘terapia’ avviata da Fassino, forse anche perché attuata da un’amministrazione con meno potere contrattuale nei confronti dei soggetti economici coinvolti in questa partita, in primo luogo le banche. Del resto sarebbe sbagliato far ricadere esclusivamente sulle spalle del M5S, così come si sta facendo a Roma, la responsabilità di questa situazione. Se guardiamo infatti ciò che sta avvenendo in tutte le grandi città italiane c’è un’unica conclusione e cioè che è l’intero sistema delle aziende di trasporto pubblico locale che è sull’orlo del collasso da anni, che ha bisogno di essere salvato e che, in assenza di un intervento concreto dei governi nazionali regioni ed enti locali stanno facendo quadrare i conti tagliando il servizio e il costo del lavoro, a prescindere dal colore politico di chi li amministra.
La prima grande città a privatizzare il trasporto pubblico fu Genova una decina di anni fa per mano di un sindaco PD e di una maggioranza con dentro Rifondazione Comunista. A comprare AMT, azienda di trasporto urbano del Comune, fu Transdev, di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti francese, che si aggiudicò il 41% di AMT, dopo che questa era stata ‘risanata’ scaricandone il debito su una bad company interamente pubblica. Transdev pagò 22,5 milioni di euro, con la clausola che in qualsiasi momento avesse deciso di andarsene li avrebbe riavuti indietro con una rivalutazione che all’epoca era circa due volte il tasso di interesse sui titoli di Stato. Inoltre la gara prevedeva che l’azienda francese ogni anno avrebbe ricevuto dal Comune una cospicua somma a titolo di ‘consulenza’ per la gestione dell’azienda. Risultato: tagli alle linee e al personale fino all’arrivo di un’altra società francese RATP (gestore del trasporto a Parigi), che nel 2011 decise di abbandonare, dopo la reazione furibonda dei lavoratori a un piano industriale che prevedeva 500 esuberi e un taglio alle linee di 3 milioni di chilometri.
Più recentemente ATP, la società che gestiva il trasporto extraurbano genovese, dopo una procedura di concordato preventivo in cui i lavoratori hanno perso un pezzo di stipendio, è stata affidata da un sindaco e presidente della Città metropolitana formalmente a sinistra del PD, Marco Doria, ad Autoguidovie, socia di Trenitalia tramite BusItalia, ma poco tempo dopo estromessa dalla gestione dallo stesso Doria.
BusItalia è la società con cui le ex Ferrovie dello Stato stanno facendo shopping di aziende di trasporto pubblico partendo da Firenze, dove la privatizzazione è stata avviata nel 2012 dall’allora sindaco Renzi. All’ATAF fiorentina gli esuberi sono stati circa 150, gestiti attraverso esodi volontari e incentivati.
Esattamente da un anno BusItalia è in gara per prendersi anche l’ATM di Milano, qualcuno dice con l’intento di arrivare a una fusione con Trenord e Ferrovie Nord Milano (acquistandone le quote della Regione Lombardia) e di assumere praticamente il controllo dell’intero sistema dei trasporti nella regione più ricca d’Italia. Qualcuno ipotizza che anche l’ATAC a Roma possa finire nel mirino di Trenitalia, così come è successo con la gara a lotto unico per l’affidamento del trasporto pubblico regionale in Toscana, dove però BusItalia si è impelagata in uno scontro con RATP finito alla Corte di Giustizia Europea.
In attesa della sentenza la Regione Toscana ha deciso di affidare il servizio a un consorzio formato dalle 14 società che attualmente lo svolgono e di stipulare un contratto-ponte con BusItalia e RATP per preparare l’ingresso di una delle due una volta emesso il verdetto.
La controllata di Trenitalia negli anni scorsi si è dotata di un contratto integrativo aziendale che in realtà regola aspetti normalmente oggetto della contrattazione nazionale.
In altre parole sta costruendo il proprio contratto nazionale su misura. In un quadro di allontanamento di molte aziende importanti da ASSTRA-ANAV, la principale organizzazione di categoria delle imprese del settore, BusItalia, una volta conquistate piazze importanti come la Toscana, Milano e Roma, potrebbe decidere di far uscire le proprie aziende e di non applicare il contratto nazionale di lavoro ASSTRA-ANAV, facendo diventare a tutti gli effetti il proprio contratto integrativo aziendale il nuovo contratto nazionale di riferimento per gli autoferrotranvieri italiani.
A Napoli a gennaio il tribunale ha messo in concordato preventivo ANM, l’azienda di trasporto pubblico locale del comune guidato da Luigi De Magistris. All’ANM è in corso una procedura di licenziamento collettivo per 185 lavoratori, mentre il servizio è al collasso e la prospettiva più probabile quella di uno spacchettamento dell’Azienda in tre tronconi (trasporto su gomma, su ferro e parcheggi), con un depotenziamento del servizio in particolare nelle periferie e nelle zne più disagiate della città. Il concordato preventivo incombe anche su ATAC, l’azienda del Comune di Roma, che ha chiesto l’avvio della procedura con l’obiettivo di evitare il fallimento ed è in attesa di un giudizio di ammissibilità del tribunale.
Questa rapida panoramica rende conto di una situazione preoccupante del trasporto pubblico locale – crisi finanziaria, servizio al collasso, la minaccia di un monopolio privato sull’intero sistema del trasporto pubblico su gomma e su ferro – ma anche di una risposta straordinariamente omogenea della politica ai problemi del settore, a prescindere dal colore dei governi nazionali e locali che si sono succeduti negli ultimi anni.
Anche da questo specifico punto di vista dunque Torino non appare come il palcoscenico di un ‘inciucio’ – come si usa dire oggi – tra PD e 5 Stelle, ma una tessera in un mosaico in cui, a dir la verità, emerge una sostanziale compatibilità tra le ricette messe in campo da tutti i partiti.