Di recente affermazione la trap music è un sottogenere del rap, contaminato da più influenze, un ibrido senza troppe pretese artistiche e per questo molto dibattuto. Il pezzo trap di solito è autoprodotto e distribuito facilmente attraverso canali social come Youtube o Spotify. Nascono così nuovi idoli: i producer come Tha Supreme e Sick Luke . Autori di testi senza impegno, composti da rime spesso non chiuse, in un mix tra slang e suoni come “skrt” e “ya“, aggiunti alla fine del verso per riempirlo. Ma il vero trucco, sta nello storytelling di uno specifico mood per il proprio personaggio, la cosiddetta storia dietro il mito.
Una formula così semplice, che la trap music da nicchia si è espansa a macchia d’olio nel panorama musicale molto rapidamente.
La leggenda narra che…
La trap music ha origini americane, precisamente nella periferia di Atlanta con la pubblicazione nel 2003 del disco Trap Muzik di T.I. La storia della lotta quotidiana per la sopravvivenza nelle Trap house, le case dello spaccio. Sembrerebbe un’evoluzione del gangsta rap, ma è grazie alla musica che i trapper sono riusciti a cambiare vita e a monetizzare.
Verso il 2010 la trap music e i suoi artisti lasciano il ghetto e diventano mainstream, fino a controllare le classifiche pop. Il sound è caratterizzato da: bassi potenti e distorti prodotti da sintetizzatori come il Roland TR-808 con bpm – battiti al minuto – più rilassanti. Si usano: Basi elettroniche, metrica è usata spesso contro tempo e voci robotizzate con l’uso dell’autotune. Ancora oggi le tematiche che uniscono quasi tutte le sfumature della trap restano: la droga e l’esaltazione di sé, del proprio stile e dei propri successi. Di solito si tratta di artisti venuti dal basso, dalla periferia che si sono autoprodotti e poi divenuti virali. Il trapper è infatti sicuro di sé, consapevole del proprio successo e molto attento a ostentarlo sempre e comunque con gioielli vistosi e capi d’alta moda.
L’approdo della trap music in Italia avviene nel 2011 con la pubblicazione del singolo “Il ragazzo d’oro” di Guè Pequeno, ma l’anno della consacrazione sarà il 2014-5. Con numeri mai visti prima da indipendenti, i mixtape di Sfera Ebbasta, Ghali e Dark Polo Gang dettano le regole della trap music italiana.
La favola è sempre la stessa, giovani di periferia, dalle vite difficili, animati dalla fame e dalla voglia di rivalsa che sono arrivati in cima da soli.
La loro affermazione ha rivoluzionato un’industria musicale ferma da anni, e non sono mancate le parodie e le critiche.
Trap music: la trappola della modernità
Come il nome suggerisce, quella che sulla scia del punk sembrava essere una spinta alla ribellione, sarebbe una bella storia se il risultato non svelasse l’ennesima trappola della modernità. Un vicolo cieco dove non resta altro che giustificare l’ideale capitalista ostentando uno stile di vita materialista e superficiale.
Basta nascondere i problemi con un po’ di fumo. L’esaltazione di sé, della droga e del denaro sono il leit motiv di un linguaggio, dai toni cupi, sbocciato tra una crisi esistenziale e un paio di crisi economiche.
La matrice del suo successo, specialmente tra i giovanissimi, risiede nella comunicazione efficace dell‘ideale rilassato e sicuro di sé che permea i versi.
Del nostro egocentrismo sconfinato i testi sono pieni, anzi non sono pieni perché attorno all’ego del trapper di turno, nascosto dal fumo, non c’è nessun altro. La favola di un successo a costo zero, alla portata di tutti, in cui gli unici nemici sono gli haters. Devastante è la solitudine del trapper, che ne emerge, un poeta moderno con poco e niente da dire ma ben confezionato da un buon storytelling.
Le critiche nascono dal dubbio se sia lecito considerarla o no musica. Come se potessimo dire di sì in base a qualche parametro oggettivo o potessimo ignorarla per partito preso. Alla trap va riconosciuto il merito di aver dato spazio a minoranze culturali e locali, che sulla scena nazionale non lo avevano mai avuto. Oltre allo sviluppo di un linguaggio efficace e immediato nel reinterpretare la realtà.
Se il testo è così povero, mi piace pensare sia perché di parole non ce ne sono più. Che forse le abbiamo provate già tutte per esprimere un disagio generazionale che appunto, ci lascia solo il gusto di ballare su un beat, seguendo il flow e sperando che qualcuno della gang si alzi e dica basta.
Valeria Zoppo