La parola transumanesimo si riferisce a correnti di pensiero che sostengono un miglioramento della condizione umana da realizzare superando i limiti biologici del nostro corpo tramite l’uso dell’intelletto e dell’innovazione scientifica. In questo articolo si sostiene che i dilemmi etici, riguardanti le visioni di un ipotetico essere “oltre-umano”, sono in realtà riconducibili a più ampi dibattiti e tanto annose quanto necessarie diatribe sui confini da porre al progresso scientifico.
Da Dante ad Huxley: evoluzione autodiretta e postumanesimo
Letteralmente la parola transumano vuol dire “al di là dell’umano”. La prima attestazione del termine risale alla Divina Commedia: trasumanar è il verbo usato da Dante quando al contatto con Dio si sforza di raccontare l’impossibile, qualcosa di cui non si può avere cognizione definita o un ricordo chiaro perché incompatibile con la nostra dimensione.
Nella nostra epoca il termine viene coniato sul finire degli anni venti del novecento dallo scienziato Julian Huxley, pioniere e ispiratore del movimento (nonché fratello di Aldous Huxley, autore del romanzo distopico “Il mondo nuovo”) immaginando <<un uomo che resta uomo ma che trascende sé stesso realizzando nuove possibilità della sua natura umana e per essa>>.
I transumanisti supportano la realizzazione delle potenzialità inespresse e il superamento dei limiti fisiologici e intellettivi del corpo umano potenziandone le capacità biologiche tramite diverse tecnologie, che spaziano dagli impianti artificiali alle manipolazioni genetiche. All’interno di queste filosofie si trova uno sforzo prometeico verso la perfezione divina e dunque la tensione per un perfezionamento verso le qualità dell’eternità, dell’onniscienza e dell’onnipotenza, in un’ottica evolutiva “autodiretta”, cioè diretta principalmente dal sapere umano piuttosto che da dinamiche naturali di adattamento.
A tal proposito si parla, da una prospettiva futurologica, di una nuova fase evolutiva postdarwiniana o più semplicemente di postumanesimo: la specie umana, trascendendo sé stessa, sarebbe allora qualcosa di nuovo sia dal punto di vista prettamente sensoriale e fisico che da quello emotivo.
E in un certo senso ciò avviene già: anche se non siamo in una fase postdarwiniana “avanzata” dovremmo chiederci: quanto già incidiamo sulla natura e sulla nostra specie? Non è forse la dimensione artificiale parte integrante di quella naturale, dato che ne costituisce un suo sottoinsieme?
Tra cyborg, marchingegni genetici e fiducia nella scienza
Gli esempi concreti di tecnologie “superumane” più o meno realizzabili o realizzate sono svariati e spesso richiamano alla mente i cyborg, esseri viventi nella narrativa, ibridi tra macchine e uomini: dagli esoscheletri che servono per gravosi compiti manuali (come il sollevamento di merci o di materiali da costruzione nei cantieri) alle applicazioni biomediche di transistor da tatuare e di nanorobot iniettabili; oppure gli avveniristici microchip da impiantare nel cervello o in altre parti del corpo per creare interfacce neuro-informatiche; e ancora robot in cui trasferire dati che replichino la coscienza umana e, viceversa, impianti con software da collegare direttamente al nostro sistema nervoso per donargli facoltà mnemoniche, di calcolo e di ragionamento logico virtualmente illimitate; così come le tecniche di criogenesi per ibernare corpi da far rivivere nei secoli o per congelare anche solo il cervello, da “caricare” eventualmente su un’altra macchina o un altro uomo-cyborg… Come non parlare poi degli esperimenti genetici con il trasferimento di sequenze di DNA da una specie a un’altra: pochi anni fa alcuni “biohacker” in un laboratorio turco hanno inserito geni di meduse nel genoma di alcuni conigli rendendoli fluorescenti…
Teoricamente, qualora i progressi scientifici lo permettessero, si potrebbe pensare a un umano con geni animali che lo rendano resistente al freddo come un orso polare o con una letterale “vista d’aquila”…
Al di là degli scenari più fantascientifici bisogna comunque notare una cosa che accomuna l’eterogeneo movimento transumanista, tendenzialmente laico e “progressista”: la fiducia nel progresso scientifico. Nel manifesto dell’Associazione Italiana Transumanisti (emanazione dell’organizzazione globale Humanity+), oltre a dissipare i pregiudizi che li dipingono tout court come distopici scienziati pazzi o settari adepti di un culto eugenetico paranazista, vengono esposti tre principi fondamentali di chi si rispecchia nella visione transumanista, enunciati come tre tipi di <<lotta>>: la prima è quella <<per il possesso delle conoscenze e delle tecnologia>>, la seconda <<per la laicità delle istituzione e della cultura>> e infine quella <<per l’affermazione di una concezione scientifica del mondo>>.
Fyborg poco transumani: dal bastone agli smartphone
Non c’è bisogno di ricorrere alla narrativa fantascientifica per affermare che apparecchi acustici, protesi di arti, pacemaker e persino semplici occhiali da vista o auricolari per ascoltare la musica sono tecnologie in grado di potenziare facoltà umane. Anche uno smartphone può essere considerato un’estensione del nostro cervello permettendoci, per esempio, di immagazzinare e consultare un numero di informazioni virtualmente infinito… E molti secoli prima la stessa invenzione della tecnica della scrittura andava a costituire una sovraumana amplificazione della memoria individuale e collettiva, base fondamentale della trasmissione di conoscenze, facoltà unica nel mondo animale e pregna tanto di opportunità quanto di pericoli per il genere umano: non a caso si pensa che l’”overloading informativo”, che molti ritengono un contemporaneo problema, in realtà era già presente ai tempi della mitica biblioteca di Alessandria, quando la vita intera di un uomo non sarebbe bastata per consultare integralmente tutti i testi custoditi in essa… E ancora, vari millenni prima dell’invenzione della ruota, già bastoni e pietre costituivano estensioni delle capacità degli arti dei primi ominidi.
Tutte le tecnologie che potenziano alcune delle nostre facoltà, senza però essere connesse direttamente con le nostre membra, ci rendono quelli che alcuni chiamano “fyborg” (forma contratta di “functional cyborg”) ossia dei quasi “cyborg”. Per svariate ragioni alcune innovazioni scientifiche, a seconda del contesto storico e sociale, sono ritenute accettabili o più o meno “oltreumane”. L’uso di certe tecniche può essere consentito per prevenire o curare delle malattie o per potenziare le capacità dei “normodotati”: a titolo esemplificativo (tralasciando il fatto che le stesse nozioni di “malattia”, “disabilità” e “normodotato” possono essere labili e controverse) si pensi a un farmaco come l’adderall o alle tecniche di screening genetico prenatale. Il primo, previsto nella terapia del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, è anche usato come vero e proprio “doping intellettivo”, molto popolare nelle più rinomate università occidentali. Anche le tecniche di screening genetico, preliminari alla fecondazione assistita, possono essere usate per prevenire gravi patologie, mentre più discusso (se non illegale come nel nostro paese) è l’utilizzo che se ne può fare per scegliere il colore degli occhi del potenziale nascituro.
I limiti etici della scienza e le analisi costi-benefici
Il nodo cruciale nel dibattito sul transumanesimo è quindi, in ultima istanza, quello del limite da porre al progresso scientifico, quello delle decisioni riguardanti la liceità di certe applicazioni tecnologiche e del loro uso. Tra i fattori che noi umani adoperiamo per discernere quando o quanto è lecito “dare una spinta” alle nostre capacità fisiche e cognitive, la principale variabile etica credo sia legata alla maggiore incisività di una tecnologia su elementi materiali, insieme al grado di permanenza delle modifiche apportate da essa su noi stessi e sull’ambiente.
Il grado di penetrazione e di cambiamento di una tecnologia è inoltre correlato a una valutazione di costi e benefici. Per esempio, a proposito delle manipolazioni genetiche, si usa spesso l’espressione “giocare a fare Dio” proprio per la profonda pervasività di queste tecniche e per la permanenza delle modifiche indotte. Quando però la tecnica di analisi genetica (come quella cui si è fatto cenno poche righe più su) viene usata per scongiurare la nascita una vita “infelice” o quantomeno molto complessa, e quindi il rapporto costi-benefici gioca a favore dei secondi, la scelta di prevedere e condizionare il futuro di un “essere vivente in potenza” appare la più razionale, e si “gioca a fare Dio” prevedendo il futuro e determinando la possibilità di far vivere o meno qualcuno.
Facciamo un esempio analogo legato però alle applicazioni delle tecnologie nucleari: se dobbiamo usarle per fare delle radiografie o delle terapie per la cura del cancro saremo disposti, come società, ad accettare i rischi legati a esse, primo tra tutti quello della gestione delle scorie. Ma quando questi rischi sono amplificati nel contesto energetico, e cioè quello delle centrali nucleari per creare energia elettrica, la società giustamente si divide sull’uso di quel settore di applicazioni scientifiche: per alcuni il gioco non vale la candela dato che il rischio di una fissione, e quindi di una catastrofe ambientale con conseguenze praticamente permanenti, non dovrebbe essere nemmeno contemplato. In più la quantità di scorie e le risorse da impiegare per gestirle saranno troppe… Per altri invece le centrali nucleari risolverebbero non solo i problemi di approvvigionamento energetico ma anche quelli ambientali, date le basse emissioni e il presunto rischio trascurabile di fissione e inquinamento radioattivo.
Transumanesimo e bio-conservatorismo: esiste una via di mezzo?!
Avendo spiegato che il dibattito etico sul transumanesimo è in realtà parte di quello più ampio sui temi della bioetica e dell’etica della scienza, ora dobbiamo chiederci: fino a dove si può spingere il cosiddetto transumanesimo? Cosa è moralmente accettabile secondo noi come singoli e collettività? Le tecnologie sono dei mezzi, restano perciò da definire i fini e la legittimità delle strategie per raggiungerli, oltre che la loro effettività: siamo sicuri che alcune tecnologie possono davvero emancipare l’uomo da malattia e povertà e, ammesso che funzionino davvero, non finirebbero con l’aumentare fenomeni come le disuguaglianze socio-economiche e l’inquinamento, molto prima che la stella intorno cui giriamo esploda? Se gran parte della popolazione mondiale già oggi non beneficia delle tecnologie che ci forniscono, potenzialmente, l’intero scibile umano a portata di palmo, cosa potrebbe accadere se altri tipi di tecniche fossero appannaggio di ancora meno persone? Siamo sicuri che non ci possono sfuggire di mano con problemi come quello della singolarità tecnologica (rappresentata dal topos delle macchine o degli androidi che si ribellano contro i loro creatori umani), concetto che indica la possibilità di uno sviluppo tecnologico che supera la facoltà di analisi umana e quindi non più governabile?
Esiste dunque una mediazione tra il libertarismo sfrenato tecno-biologico e l’intransigenza tecnofoba e bioconservatrice? Cari lettori arrivati fin qui, voi che ne pensate, dove vi collochereste fra questi due estremi?
Personalmente ritengo che non si debba sprofondare in un “medioevo” tecnologico post-nucleare o tantomeno predicare un idilliaco ritorno all’età della pietra… Tuttavia bisognerebbe concentrarsi più sugli aspetti etici dell’organizzazione politica-sociale invece di inseguire chimere futuristiche che ci liberino tecno-magicamente da atavici enigmi. Certo è che l’uso delle tecnologie, da quelle dei tempi del bastone fino alle protesi artificiali connesse con il nostro sistema nervoso, tanto può farci avvicinare verso la catastrofe totale, climatica e sociale, tanto può aiutarci a emanciparci dai nostri limiti biologici e da problemi come la denutrizione nel mondo: dipende da come li usiamo…