Transizione energetica, le strategie sul petrolio. Usa ed Europa a confronto

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La transizione energetica e le strategie delle multinazionali sul petrolio a confronto in Usa e in Europa, due elementi indispensabili per capire lo stato del cambiamento climatico

La transizione energetica dipende da sempre dal prezzo del greggio, che ha subìto, a causa della pandemia da coronavirus, una delle peggiori crisi. Il lockdown totale o parziale di città, metropoli, centinaia di migliaia di attività economiche in giro nel mondo ha generato un forte shock petrolifero, che ha costretto i paesi dell’Opec a tagliare la produzione, per circa quattro mesi consecutivi. La pandemia ha riacuito il dibattito sull’estrema volatilità di questo combustibile fossile e l’opportunità di accentuare gli investimenti sulle fonti di energia rinnovabili.

Al di là delle politiche dei singoli Stati, nella lotta al cambiamento climatico sono indispensabili le scelte adottate dai privati. Anche dalle multinazionali, soprattutto, dalle compagnie petrolifere. Per capire quale futuro ci attende.

Strategie a confronto, Stati Uniti ed Europa si muovono in direzioni opposte

L’Unione europea ha annunciato il Green New Deal, il taglio delle emissioni dei gas serra del 55 per cento entro il 2030, l’introduzione della carbon tax per ottenere risorse fiscali proprie con il Recovery Fund. Con Donald Trump, gli Stati Uniti hanno smantellato, tassello dopo tassello, le regolamentazioni ambientali promosse da Barack Obama.

L’Unione europea è la prima al mondo per energia prodotta da fonti rinnovabili. E le aziende hanno scritto una lettera alla presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, chiedendo il taglio delle emissioni inquinanti, sempre entro il 2030. Gli Stati Uniti puntano alle riserve petrolifere in Alaska e non rinunciano a nuove trivellazioni nel Golfo del Messico.

Differenti le strategie delle compagnie petrolifere americane ed europee per i prossimi anni

L’andamento del prezzo del petrolio ha messo in difficoltà le multinazionali di tutto il mondo e i paesi produttori. I segni violenti del cambiamento climatico si sono mostrati anche durante questo tormentato 2020. Temperature anomale in Nord Europa – con 32° in Finlandia – uragani e incendi devastanti hanno flagellato la costa orientale ed occidentale degli Stati Uniti.

Così BP, Royal Dutch Shell, Eni, Total Repsol, Equinor – multinazionali del petrolio e dell’energia europee – hanno deciso di tagliare una parte dei dividendi ai propri azionisti per convogliarli in investimenti su ricerca e sviluppo per tecnologie sostenibili e fonti di energia rinnovabile. Eolico, solare, idraulico, geotermico fondamentali per la transizione energetica.

Chevron ed Exxon Mobile, i “big” americani del petrolio, hanno scelto una strada diversa. Segno che l’approccio al cambiamento climatico tra Usa ed Europa è profondamente distante. Le compagnie petrolifere statunitensi ritengono ingiusto ridurre i dividendi dei propri azionisti per accelerare il processo verso fonti di energia rinnovabile. Convinte che il mercato globale non potrà mai fare a meno (non del tutto) del petrolio.

Cambiamento climatico, non ci resta molto tempo per la transizione energetica

Sappiamo che non ci resta molto tempo per impedire che la temperatura media globale aumenti di due gradi. Le multinazionali europee hanno in programma di chiudere a poco a poco i giacimenti di greggio attivi. Entro i prossimi dieci anni, BP, Royal Dutch Shell, Total, Repsol, Equinor, Eni intendono tagliare la produzione di metano e di greggio del 40 per cento circa. Destinando ciascuna all’incirca cinque miliardi di dollari all’anno per questo lungo ma fondamentale cambiamento economico.

Una strategia (e visione) realista, pragmatica. Ma soprattutto lungimirante che guarda a scelte di lungo periodo

Chevron ed Exxon continuano a fare ciò che sanno fare meglio: spezzettare la produzione del greggio e il commercio del gas naturale in società offshore sparse tra il Texas e il Nuovo Messico. Chevron infatti ha continuato ad acquistare piccole compagnie petrolifere – col rischio di ulteriori concentrazioni sul mercato – per incrementare le sue riserve.

“La nostra strategia non è seguire gli europei”

ha dichiarato a chiare lettere il vice presidente della Chevron Daniel Droog responsabile per la transizione energetica. La compagnia ha scelto di aumentare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili per abbattere i costi (e ridurre l’impatto ambientale) della produzione di greggio. In parte rinunciando al metano, altro potente gas serra.

Se di investimenti sostenibili si parla, le compagnie petrolifere americane preferiscono convogliare i propri capitali per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie capaci di catturare (o sequestrare) l’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera. La strategia non prevede, almeno nell’immediato è certo, di rinunciare al petrolio. Un miliardo di dollari l’anno finiscono in questi progetti. Non è da meno la sorella Exxon, che recentemente ha annunciato lo sviluppo di materiali capaci di catturare il diossido di carbonio prodotto dal gas naturale con l’aiuto degli scienziati dell’università della California, Berkeley.

Nel libro un Green New Deal globale, Jeremy Rifkin scrive come il tramonto dei combustibili fossili sia inevitabile. Mentre, Dieter Helm in Burn Out: the End Game for Fossil Fuels prevede:

Queste compagnie, alla fine,  moriranno.

Chiara Colangelo

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