Stamattina sono andata a prendere mio figlio a casa del padre per andare alla LUISS, visto che lui fa parte del progetto Autistico&Giardiniere, e ci siamo recati alla fermata del tram per raggiungere Via Panama. Dopo un paio di minuti lo vediamo sopraggiungere, guardo il numero, è una cosa che mi viene spontanea da tanti anni: 7101. E’ lui. Un tuffo al cuore. Su questo tram tutto ha avuto inizio.
Saliamo e ci sediamo. Il tram è stato restaurato, modificato, ma è sempre lui. Una mattina di 24 anni fa ci salimmo Tommaso ed io, venivamo da Neuropsichiatria infantile, Via dei Sabelli, dove lui aveva appena iniziato a frequentare un asilo terapeutico, quando stavamo ancora facendo i conti con la tegola di proporzioni inaudite che ci era cascata sulla testa. Tommaso all’epoca era un bambino di 3 anni e mezzo bellissimo, con una massa di riccioli biondo platino e gli occhi enormi, un insospettabile come sono gli autistici, condannati doppiamente da un aspetto che non fa apparire subito la magagna. Gli piacevano i mezzi pubblici, stava seduto e ripeteva, come accade a chi è autistico, la stessa frase. Molti sguardi si posavano su di lui e su di me, madre incapace, evidentemente, di far tacere il pargolo maleducato. Ad un tratto il conducente si volta e mi fa: “ ’A signò, tocca che ‘sto ragazzino sta zitto!”. Io, ancora nella fase del frastornamento da tegola, quando stai ancora facendo i conti con una realtà più grande di te, gli risposi quasi scusandomi che ci stavo provando, ma mio figlio aveva un problema, venivamo da Via dei Sabelli, a Roma universalmente nota per la facoltà suddetta. Non contento lui replica: “E allora vuol dire che suo figlio deve scendere e prendere un taxi” il tutto nel silenzio assordante dei presenti. Ovviamente non mi mossi, non risposi per non agitare Tommaso che solo in apparenza sembrava indifferente agli accadimenti. Durante il tragitto sentii che qualcosa dentro me si era spezzato, che la madre spaurita e frastornata non c’era più, al suo posto stava arrivando una persona completamente diversa.
Tornata a casa telefonai all’ATAC, un ispettore mi disse che il conducente non si sarebbe dovuto permettere e mi chiese di scrivere una lettera al Presidente, cosa che feci insieme ad un a lettera a tutti i quotidiani, lettera in cui non nominavo mio figlio, firmavo con il mio cognome da nubile e spiegavo l’accaduto. La pubblicarono tutti, il Presidente dell’ATAC mi scrisse due volte, una per scusarsi, l’altra per segnalarmi che avevano sanzionato il conducente, i medici mi dissero che nessuno prima aveva fatto una cosa del genere e si complimentarono. Ma a me non importava: quello che mi aveva fatto più male era stato il silenzio dei presenti davanti alla violenza gratuita nei confronti di un bambino che non poteva difendersi. Avevo scoperto la bestia nera dell’ignoranza, del pregiudizio contro il quale, dopo tanti anni, non ho ancora smesso di combattere perché evidentemente in questa società certe cose sono dure a morire. Mi fecero male le parole del mio ex marito che mi accusò di aver messo in piazza i problemi del figlio, le parole di mio padre che mi chiese se era stato proprio necessario firmare la lettera ai giornali.
Quel giorno capii molte cose, è stato per me il punto di non ritorno verso atteggiamenti, persone, fatti e situazioni. Questa mattina su quel tram c’erano tutti i 24 anni che sono passati, con le loro tragedie, le gioie, i dolori, le battaglie, le vittorie, le sconfitte, gli stravolgimenti che hanno segnato indelebilmente le nostre vite e la nostra famiglia. Mi sono passati davanti nei minuti della corsa mentre guardavo l’uomo che è diventato mio figlio, seduto quieto che guardava dal finestrino, ma dentro ancora il bimbo biondissimo di allora. Mi sono sentita grata, dopotutto, di essere arrivati fin qui e di avere ancora davanti un bel pezzo di strada per consolidare, combattere e vincere altre battaglie, forse la guerra.