Traducendo Brecht: a che serve la letteratura durante una guerra?

Traducendo Brecht: a che serve la letteratura durante una guerra?

Che senso ha occuparsi di letteratura durante una guerra? Non è ozioso, non è inutile? Una risposta a questi dubbi può essere trovata in una meravigliosa poesia del 1959 di Franco Fortini, Traducendo Brecht.

Mi ha sempre stupita scoprire che un romanzo, una raccolta di poesie, un saggio di argomento letterario fossero pubblicati in tempo di guerra. Leggere date come 1917 o 1941 accanto alla dicitura “prima edizione” e al nome di importanti case editrici europee mi appariva strano, incongruo. Mi chiedevo: come si riesce a continuare a scrivere, a occuparsi di letteratura, anche in tempo di guerra? E, soprattutto, perché farlo? Non pensavo che questo problema avrebbe mai riguardato qualcuno di noi in concreto. Ciò che sta avvenendo in Ucraina, però, mi ha dimostrato quanto clamorosamente io mi sbagliassi. Quelle domande, formulate come ipotesi teoriche, sono diventate dolorosamente concrete. E una possibile risposta non poteva che venire dalla letteratura stessa. In particolare, per me è venuta dalla poesia Traducendo Brecht di Franco Fortini.




Traducendo Brecht: per una poesia militante

Sono ventuno versi irregolari quelli che compongono la poesia Traducendo Brecht. Ventuno versi che scandiscono un’inquietudine profonda: lo smarrimento di un intellettuale non più certo del ruolo della letteratura. Scritta nel 1959, questa non è una poesia di guerra. O meglio, se di guerra si tratta, è una guerra intima, con la propria coscienza. Fortini sa di essere, a differenza di Brecht, un intellettuale borghese, giocoforza. Si rende conto, cioè, che la società migliore che era parsa possibile si è rivelata un’illusione. Il mondo è pacificato, ma il lavoro culturale è reso possibile dal lavoro produttivo che un gran numero di persone svolge in condizioni di sfruttamento. Questa, per il poeta, costituisce una sconfitta. Ciò emerge con grandissima evidenza dalla prima strofa, in cui si legge:

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Non c’è più lotta, osserva Fortini, ma questo non significa che la giustizia abbia trionfato. Significa soltanto che si è imparato a dare il nome di “libertà” a rapporti sociali asimmetrici e a considerarlo normale.

Che fare?

Anzitutto, prenderne atto. E poi? A questo proposito, in Traducendo Brecht Fortini è chiarissimo. Nella seconda strofa, infatti, il poeta scrive:

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Scrivere, mantenendo vigile la coscienza. Scrivere, evitando di chiudere gli occhi di fronte agli aspetti problematici della società in cui si vive. Fare letteratura non solo per celebrare la bellezza, ma anche e soprattutto per esprimere il proprio dissenso verso ciò che non è giusto. Rifiutando di lasciarsi manipolare, di farsi guidare verso obiettivi utili a chi non ha a cuore l’umanità. E riconoscendo, anche se è fastidioso e doloroso, la propria collusione quando si è collusi.

Traducendo Brecht: a che serve leggere la lirica di Franco Fortini oggi?

In Traducendo Brecht Fortini non potrebbe essere più chiaro. Lo dice, lo dice esplicitamente:

La poesia non muta nulla.

Anche se è vero solo a metà. La poesia e la letteratura non possono mettere fine a una guerra: non può farlo nemmeno, come accade nelle liriche di Ungaretti, della guerra mostra all’opera tutto l’orrore. Né bastano a prevenirla. È esistita, lo sappiamo, la Ninnananna de la guera di Trilussa, ma è esistito anche l’intervento italiano nel primo conflitto mondiale. Possono, però, ricordare la differenza tra giusto e sbagliato. Possono opporsi alle retoriche semplicistiche di propaganda che oppongono buoni e cattivi, dando voce alle ragioni dell’altro. E se davvero l’altro è indifendibile, esse possono impedire quantomeno che la barbarie si combatta con la barbarie.

No, occuparsi di letteratura durante una guerra non è né ozioso né gratuito: è imprescindibile. Proprio perché non c’è guerra immaginabile dalla quale la specie umana possa uscire vincitrice. La letteratura non muta nulla, nondimeno contribuisce a mantenerci umani. E dunque:

Nulla è sicuro, ma scrivi.

Valeria Meazza

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