La memoria, generalmente, viene intesa come una fondamentale facoltà psichica. Come la peculiare capacità della mente di immagazzinare, più o meno durevolmente e precisamente, ciò con cui si entra in contatto. Si tratta di una concezione fondata, spesso ben argomentata e a lungo studiata scientificamente. Tuttavia, preziosi spunti ci arrivano da civiltà che non hanno inteso la memoria come una mera funzione psichica, mentale ma ne hanno allargato la portata fino ad accoglierla come un fatto cosmico. Cosa si può trarre, oggi, da queste proposte, da queste diverse tracce di memoria?
La memoria fonda l’articolarsi dell’esistere umano. Senza questa né, in questo momento, chi scrive potrebbe scrivere. Né chi leggerà queste parole potrebbe comprenderle. Probabilmente una constatazione di questo calibro – se vogliamo basica – avrà portato i greci arcaici e classici a divinizzare la memoria. E a definirla «colei che articola la vita». Quale elaborazione di pensiero, infatti, avrebbe modo di esistere senza tracce di memoria? Quale tipologia di comunicazione, relazione, azione potrebbe strutturarsi senza quella facoltà che ne permette uno svolgimento semantico? Si avrebbero parole alla rinfusa o movimenti, gesti, azioni del tutto irrelati tra loro. Quale prima, quale dopo? Quale ora che neanche il tempo di essere futuro si è fatto già passato?
UNA FONDAMENTALE FUNZIONE PSICHICA
Ben si comprende, allora, perché la memoria sia stata tratteggiata dai greci antichi come il principio che fonda l’articolarsi dell’esistenza umana. Quand’anche, effettivamente, come oggi, la memoria sia intesa generalmente come una semplice, benché fondamentale, funzione psichica. Fatto, questo, che si riscontra anche tracciando una rassegna delle definizioni del termine ‘memoria’ che forniscono alcuni tra i maggiori dizionari della lingua italiana. Così è definita dal dizionario Treccani:
In generale, la capacità, comune a molti organismi, di conservare traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte.
Ancora più esplicito il riferimento alla mente da parte del dizionario Garzanti:
Facoltà della mente di conservare e richiamare alla coscienza nozioni ed esperienze del passato.
Tutto giusto, figuriamoci se in questa sede si vogliano mettere in discussione le definizioni fornite da alcuni dei più autorevoli studiosi della lingua italiana. Ma c’è dell’oltre rispetto a ciò. Antiche tracce lasciate in eredità dal passato che permettono di accedere ad altri orizzonti. Tracce di memoria.
LA MEMORIA IN QUANTO FATTO COSMICO
Nella Grecia arcaica e classica, come si è anticipato, Memoria era una divinità. Mnemosyne: figlia del cielo e della terra, colei che articola la vita. Nonché madre delle Muse, divinità che presiedono alle arti, anch’esse, dunque, regolate dal serio gioco della memoria. Qualcosa di diverso emerge.
Se non altro il fatto che la memoria, finora considerata solamente sotto l’aspetto di una facoltà mentale, travalichi l’umano – la mente – per configurarsi come una divinità. Come un fatto, dunque, cosmico e non meramente psicologico. Perché? Ed a cosa può portare tutto ciò?
In parte lo si è già sostenuto: solo nel riferirsi al già-stato si può andare incontro a ciò che sarà. In altre parole, solo tornando indietro si può andare avanti. Queste poche righe affondano le radici in ciò che, al momento, ha a disposizione chi scrive. Si potrebbe dire: ciò che al momento è chi scrive; ciò che, nel tempo, ha immagazzinato, elaborato, metabolizzato e qui riproposto chi scrive. E le parole si incasellano, incastrano, l’una dopo l’altra, l’una con l’altra, secondo una dinamica fondata sul prima e sul poi.
MEMORIA E RITORNO
Seguendo questo tracciato ogni tentativo di elaborazione, strutturazione, costruzione del sé altro non è che un ritorno più approfondito su ciò che già si conosce. Un esercizio, appunto, di memoria. Che non si riduce al semplice vedere di nuovo qualcosa. Ma si spinge oltre: ogni riconoscimento, ogni ritorno sul già-conosciuto – ogni atto di rimemorazione – si configura come un approfondimento di ciò che già si conosce. Si tratta di una dinamica spiegata mirabilmente dal filosofo Hans-Georg Gadamer nel testo L’attualità del bello:
Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’«accasamento» (Einhausung) umano […] il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. […] Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole.
TRA QUOTIDIANITÀ E ASTRAZIONI
Sembra, almeno in apparenza, un concetto terribilmente complesso. Ma è, in realtà, una dinamica molto più quotidiana e ricorrente di come, a primo acchito, possa apparire. Basti pensare a cosa accade quando, dopo tempo, si incontra una persona e la si riconosce. È un semplice e additivo «vedere di nuovo qualcosa» che non modifica in nessun modo la nostra vita? O si tratta, come sostiene Gadamer, di un «conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto»? Noi, in quel momento, riconosciamo la persona semplicemente perché la conosciamo già. E la conosciamo in un certo modo, per ciò, appunto, che fino a quel momento ci è già noto.
L’incontro, anche se minimale, apporterà qualcosa di più in noi. Sapremo qualcosa in più rispetto a ciò che ci è già noto. Anche se fosse solo lo stare bene o stare male della persona incontrata in risposta alla nostra domanda «come stai?». Persino dalla più banale ed ordinaria conversazione di circostanza può rimanere traccia di uno sguardo, di un sorriso, di un atteggiamento cordiale, distaccato o accogliente. Addirittura per il solo fatto di aver incontrato quella persona una volta in più nella vita. Ed ecco, allora, che «nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole».
ABITARE LA MEMORIA COSMICA
Ma il permanente in quanto tale appartiene solo al divino, non all’umano. In questo caso, visto che si tratta di un atto di memoria, a Mnemosyne. Ecco la memoria cosmica, colei articola la vita. All’uomo è dato aggiungere tasselli, dettagli, tracce di memoria a ciò che già conosce. Tornare in maniera più originaria sul già-conosciuto e, così facendo, intraprendere un asintotico ed ininterrotto itinerario di conoscenza. Mnemosyne, dunque, è anche la dea della ripetizione, intesa non come mera iterazione dell’uguale ma in quanto ritorno più approfondito su ciò che ci è già noto.
Ed è per questo che le Muse, nella Grecia arcaica e classica, cantano senza posa l’origine – nonché il fine – dell’universo. Perché si tratta di eventi, dal punto di vista umano, inauditi, mai del tutto comprensibili. Sui quali l’uomo, a differenza del dio, non smetterà mai di interrogarsi. Aggiungendo, ad ogni ritorno su di essi, sempre qualcosa in più. È il gioco della vita, quanto quotidianamente siamo chiamati a svolgere. Dalle pratiche più ordinarie agli interrogativi primi ed ultimi. Riavvolgiamo continuamente tracce di memoria per danzare la vita, ci volgiamo costantemente all’indietro per strutturare ciò che verrà. In questo consiste ciò che Gadamer definisce il nostro processo di accasamento: tessere, di momento in momento, qualche scampolo di conoscenza in più nella trama enigmatica della vita. Come? Attraverso la memoria. Abitando in maniera asintotica ed ininterrotta i cenni di Mnemosyne, le profonde tracce di memoria cosmica.
Mattia Spanò