Il personal branding è uno strumento chiave in un mercato del lavoro che premia chi meglio si distingue. Ma è tutto oro quello che luccica?
Oggi il mercato del lavoro chiede spesso ai propri acquirenti di presentarsi attraverso un personal branding. Si tratta dell’applicazione del brand alla persona: la rappresentazione e il racconto dell’insieme di interessi, competenze, esperienze e abilità da presentare ai potenziali datori di lavoro. Come spiega uno dei maggiori esperti di personal brand e credibilità, l’immagine personale che consente di raccontarsi e di vendersi al mercato del lavoro.
Il personal branding si pone come mezzo di esaltazione del singolo rispetto alla massa di potenziali competitor che cercano lavoro, appoggiandosi su un sistema che premia chi più merita perché più capace a distinguersi. Per questo motivo il legame tra questo strumento e la meritocrazia nel mondo del lavoro è evidente. Tuttavia, questa retorica presenta problematiche che si rispecchiano sul benessere delle persone e nella riproposizione di una mentalità che ignora e allo stesso tempo rafforza le disuguaglianze.
Dal self-help al personal branding
Nato negli anni Novanta come parte integrante della cultura d’impresa, la logica del personal branding vede un primissimo precursore durante la seconda metà dell’Ottocento con il movimento del self-help. Questa retorica promuoveva la possibilità che tutti potessero auto-realizzarsi attraverso un lavoro individuale su di sé, in circostanze specifiche come nella vita in generale.
Oggi il mercato del lavoro chiede sempre più ai suoi acquirenti di rendersi “acquistabili”. Le regole del gioco in questione spingono a coltivarsi e mostrarsi in modo da suscitare il coinvolgimento da parte dei datori di lavoro. Si tratta di uno sforzo prettamente individuale che spesso sfocia dall’ambito professionale alla vita quotidiana. In genere, le strategie di personal branding evidenziano la necessità di mostrare innovatività e di mettere in risalto le proprie abilità nel modo più accattivante, in modo da ricevere offerte in linea con una logica della prestazione che dispensa premi ai più meritevoli.
Meritocrazia o disuguaglianza?
La retorica del personal branding prende forza da una mentalità prettamente meritocratica. Tuttavia, nella realtà la meritocrazia stride con i dati di fatto. La società di oggi si regge su disuguaglianze strutturali che riguardano differenze socio-economiche, geografiche, di genere e di accesso agli strumenti necessari a conquistarsi davvero il proprio posto nel mercato del lavoro. Spesso chi riesce in questo traguardo è chi parte già da condizioni avvantaggiate nella possibilità economica di sostentarsi durante il tentativo, così come nel tipo di rete sociale in cui si trova. Come evidenzia l’ultimo rapporto di Oxfam, solo l’1% della popolazione mondiale di oggi possiede quasi i due terzi di tutta la nuova ricchezza creata dal 2020: 42 trilioni di dollari che corrispondono a quasi il doppio del denaro posseduto dal restante 99% di persone meno ricche o povere.
Anche se la logica meritocratica affida al singolo la responsabilità della propria condizione economico-sociale, la realtà evidenzia come sia la povertà a essere un prodotto della disuguaglianza e non il contrario. Alcune ricerche rivelano l’effetto della scarsità sulle capacità cognitive di chi la vive, mostrando come l’abitudine a condizioni poco abbienti spesso generi comportamenti controproducenti per il futuro in quanto intrisi di un atteggiamento che subisce la pressione del presente. Questo tipo di condotta mostra come la meritocrazia abbia in realtà effetto solo su chi già si trova in condizioni favorevoli. Inoltre, studi evidenziano come le persone a basso reddito esprimano più stati d’animo negativi rispetto a chi vive in condizioni più abbienti. Si tratta di atteggiamenti spesso sconsigliati dalle tecniche di costruzione di un personal branding e che sicuramente non favoriscono l’atteggiamento propositivo e competitivo necessario all’immissione nella realtà meritocratica del mondo del lavoro.
Le radici psicologiche della meritocrazia
Tra gli argomenti di “Le radici psicologiche della disuguaglianza“, Chiara Volpato evidenzia gli effetti della retorica meritocratica sulle disuguaglianze e la mobilità sociale. Alcune ricerche mostrano come la sovrastima della mobilità ascendente sia più forte in Paesi con una maggiore disparità economico-sociale. Altri studi mostrano che le classi meno privilegiate avvertono meno le disuguaglianze reali quanto più aderiscono all’ideologia meritocratica. La discrepanza tra la disuguaglianza oggettiva e la sua percezione fa sì che non vi sia reale cambiamento. Infatti, questo è possibile solo quando l’ingiustizia sociale è percepita e condivisa.
Nell’affidare le cause del successo e dell’insuccesso al singolo, la meritocrazia deresponsabilizza il ruolo della società. Si tratta di un’ideologia che promuove una logica individualistica che frammenta l’identificazione delle classi sociali poco abbienti. Inoltre, nel mettere in risalto chi già usufruisce del prestigio crea modelli in realtà irrealizzabili se non a partire da condizioni avvantaggiate. Come spiega Chiara Volpato, la retorica meritocratica è usata dai gruppi privilegiati per costruire e mantenere il proprio status.
Mentre impongono all’intera società il mito di una superiorità basata sul merito, che costituisce la base dell’individualismo e permette il culto di personalità eccezionali, la vita reale dell’alta società è improntata a un collettivismo quotidiano, pragmatico, intessuto di un incessante lavoro teso a rafforzare il gruppo, educare le giovani generazioni, tutelare il proprio vantaggio, costruire barriere che evitino pericolose promiscuità.
L’individualizzazione e l’aumento di malessere e competizione
L’atteggiamento promosso dal personal branding può portare a forme di malessere che non trovano soluzione se non nella consapevolezza dei suoi effetti sulle persone. Se introiettato come unica possibilità esistenziale, questo può diventare l’irraggiungibile riferimento di uno sfiancante confronto personale che si risolve in competitività aggressiva o in autosvalutazione. Come riportano alcune riflessioni,
in assenza di una vocazione personale alla quale aderire senza riserve, l’individuo si consuma in una ricerca potenzialmente infinita. La promessa dell’auto-realizzazione viene costantemente tradita, poiché sebbene sia facile proclamare che tutti abbiano il diritto di seguire la propria vocazione, nessuno può dire ad un altro in cosa essa consista. […] L’individuo scopre allora che all’alleggerirsi dei vincoli esterni non corrisponde affatto una “ritrovata” sovranità individuale, quanto piuttosto un aumento di pesi da scontare nella dimensione privata. L’anelito ad essere se stessi si è trasformato nella “fatica di essere se stessi” e la retorica del successo riposa sulla chimera della conquista.
Il personal branding come promotore di una mentalità individualistica: possibili controtendenze
Il modello promosso dalla cultura del personal branding sostiene e genera atteggiamenti competitivi che poggiano su una base meritocratica irreale. Questi atteggiamenti sbordano sempre più dal mondo del lavoro a uno uno stile di vita individualizzato in un sistema che sorregge e nutre le disuguaglianze. In questo contesto vengono sempre meno i presupposti necessari a creare un conflitto utile per un reale cambiamento. Come scrive Chiara Volpato,
l’individualizzazione rimanda all’impatto che l’odierna configurazione del capitalismo ha sugli individui e la loro psicologia; essa si associa alla scomparsa dell’atteggiamento conflittuale, in parte perché tutti sono in concorrenza con tutti, in parte perché gli individui affidano sempre più la loro identità alla quantità di merci consumate. Al crescere della disuguaglianza non corrisponde infatti il diffondersi del conflitto, ma il dilagare della frammentazione sociale e la ricerca, sfibrante e il più delle volte fallimentare, di soluzioni individuali a problemi collettivi.
La retorica pressante del personal branding fa sì che questo strumento sia complice di questa dinamica. Per questo motivo, l’unica soluzione sembra essere definire atteggiamenti nuovi che si oppongano all’individualismo e all’ideologia meritocratica fondata sulle disuguaglianze. Come afferma Chiara Volpato, creare un pensiero che sappia coinvolgere le persone riproporre le ragioni della comunità nella vita quotidiana come nel mondo del lavoro.