Infanzia e Olocausto, capiamo cosa abbia significato per i bambini una delle pagine più oscure della storia.
Oggi è il Giorno della Memoria e vi spingiamo a riflettere su cosa una mente pura e ingenua come quella di un bambino possa aver concepito in un contesto tragico, distorto, malvagio e privo di logica come quello della Shoah. Analizziamo dunque il rapporto tra infanzia e Olocausto.
Cenni storici
I bambini furono i primi a pagare il duro prezzo delle politiche discriminatorie messe in atto già a partire dal 1933. Se venivano considerati “non ariani”, quindi ebrei, ma anche Rom, Polacchi, Sovietici, nonché bambini tedeschi con handicap fisici o mentali provenienti dagli Istituti di cura; venivano espulsi dalle scuole e costretti ad abbandonare le loro attività, le loro case, i loro affetti.
infanzia e Olocausto, quando da un giorno all’altro la vita diveniva un’incognita. Molti, specialmente i più piccoli, venivano uccisi immediatamente al loro arrivo nei campi di sterminio; quelli nati nei ghetti e nei campi potevano sopravvivere solo se gli altri prigionieri riuscivano a nasconderli. Chi aveva compiuto 12 anni veniva direttamente destinato al lavoro forzato o usato per esperimenti medici. A questo proposito, è emblematica la figura di Josef Mengele, che si occupava della selezione dei prigionieri al campo. Sceglieva con cura i gemelli ebrei per poterli studiare, in quanto era fortemente convinto che nella genetica stesse il segreto per il mantenimento della “razza pura ariana”.
L’infanzia durante l’Olocausto era un problema. Si parlava di Kinderfeindlichkeit, ovvero l’ostilità versoi bambini, i quali, ebrei o meno, venivano visti soltanto come scomode bocche da sfamare. Nel 1939, partiva quello che viene definito il “programma eutanasia”, dove il regime si occupava di “ripulire” il popolo tedesco dai bambini affetti da handicap, lenti ad imparare o con qualsiasi tipo di problematica. Secondo una stima numerica almeno 1.100.000 bambini e adolescenti ebrei furono uccisi durante l’Olocausto.
Infanzia e Olocausto: la funzione del gioco
In un contesto così drammatico, l’unica fuga era giocare. Si giocava però a ciò che si conosceva meglio: la guerra. I bambini polacchi giocavano a condurre interrogatori, imitando la Gestapo, i bambini ebrei fingevano di essere le guardie del ghetto e così via. La dimensione ludico-fantastica era necessaria a sopravvivere. Si imparava a convivere con la morte, ad ignorarla e talvolta a giocarci insieme.
A questo proposito, non si può non citare un film come Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman. Una favola amara ci fa sentire lo scarto tra una mente infantile capace di elevarsi sopra ai pregiudizi e ai problemi e quella di un adulto che spesso non è capace di una simile grandezza.
Ogni semplice cosa di cui il bambino è in grado di stupirsi, è insignificante agli occhi di un adulto. La loro ingenuità non è però segno di ignoranza, entrambi i personaggi sono intelligenti e curiosi, Bruno è sempre in cerca di avventure e riesce a non cadere nella trappola dell’ideologia nazista, mentre Shmuel seppur in una condizione così difficile ha una mente lucida ed è responsabile.
Giocare con la morte
Lo sguardo innocente però non permette loro di comprendere tali atrocità fino in fondo. Si gioca con la morte in un certo senso, come quando Bruno chiede a Shmuel “Perché portate sempre i pigiami?” non rendendosi conto che quello non fosse altro che l’abbigliamento dei deportati nei campi, o ancora “Come funziona il gioco dei numeri?” riferendosi al suo numero di matricola. In un’altra scena Bruno insieme ai compagni giocano e corrono per strada dove sta avvenendo un rastrellamento.
Bruno sembra intuire che quella di cui verrebbe a far parte non è una società così giusta e non ha fretta di diventar grande. Il mondo dei grandi è spaventoso e complicato, ognuno di loro è come barricato nelle proprie convinzioni, come privo di identità. Questo è evidente nel suo rifiuto di voler leggere i libri di “storia vecchia e noiosa”, come lui stesso definisce, che l’educatore gli impone, al contrario della sorella che già essendo più grande sembra aver perso l’innocenza ed essere entrata a pieno nella trappola della propaganda nazista.
Un altro capolavoro cinematografico in cui troviamo questa dimensione ludico-tragica rapportata sempre al tema dell’infanzia nell’Olocausto, è La vita è bella di Roberto Benigni. In questo caso, il padre cerca di proteggere il figlio Giosuè facendogli credere che la vita nel campo non sia altro che un gioco particolare nel quale si accumulano punti.
Thomas Geve: dipingere l’orrore
Quando di parla della relazione infanzia e Olocausto, un caso singolare che merita attenzione è quello di Thomas Geve. Quest’uomo è un ingegnere ebreo di origine tedesca tra i pochissimi bambini sopravvissuti ai campi di concentramento di Auschwitz, Gross-Rosen e Buchenwald. Di seguito alla liberazione, ha prodotto una serie di 79 disegni volti a illustrare la sua esperienza, seguiti da due libri di memorie autobiografiche. Molti di questi sono raccolti in un’opera intitolata Qui non ci sono bambini , edito da Einaudi.
Come spiega in alcune interviste, i suoi disegni erano un modo per raccontare l’esperienza appena vissuta al padre. Essendo un documento così strettamente personale riusciamo a percepirne tutto il dolore che ne traspare, la voglia di parlare, di trovare un ascoltatore attento e di sentirsi ascoltati. Per un sopravvissuto, è quasi un obbligo morale dare voce e ricordare ciò che è stato, per quanto comunque questo risulti difficile.
Thomas sceglie di rappresentare attraverso i colori la vita nel lager in tutti i particolari, come soltanto l’occhio di un bambino riesce a fare. I disegni però, contrariamente alle aspettative, non sono cupi o eccessivamente inquietanti. Le SS appaiono come degli uomini grossi e crudeli, mentre gli ebrei piccoli e magri. Thomas non carica eccessivamente di pathos la rappresentazione dei fatti, è piuttosto attento e meticoloso nel descrivere il rigore e il metodo del funzionamento del campo.
Infanzia e Olocausto: conclusioni
Tutti questi segnali ci permettono di capire come i bambini tendano a filtrare il dramma che li circonda. Forse è anche questo uno dei motivi di tanto odio nei loro confronti, appaiono deboli ma sono anche menti pericolose perché incorruttibili. La loro immaginazione e potenzialità non può essere soppressa con nessuna legge o punizione. Agiscono senza pensare troppo, senza schemi né sovrastrutture. Dal libro Shoah. L’infanzia rubata. , curato da Daniela Dana Tedeschi, ci piace trarre questa citazione dello scrittore e pedagogista Janusz Korczak:
E’ faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. E’ piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli.
Giulia Sofia Fabiani