Tra disoccupazione e dimissioni: una generazione di giovani insoddisfatti

disoccupazione

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Nonostante il Governo uscente abbia parlato di lenta ripresa, in realtà sono pochi i settori in cui ciò si sta realmente registrando. La crisi che stiamo vivendo sta mettendo in ginocchio gran parte delle famiglie e delle attività, aumentando il tasso di povertà e di disoccupazione del nostro Paese.

Ma è proprio su quest’ultimo punto che ci vogliamo concentrare. E vogliamo in particolare guardare ai giovani, quindi a quella fascia posizionata al di sotto dei 30 anni. I dati Istat hanno rilevato una disoccupazione giovanile pari al 24%, in crescita rispetto al precedente.

Cosa ci dice questo dato? Evidentemente qualcosa non va nelle politiche di occupazione. Non si può dare la colpa solo al reddito di cittadinanza, che sicuramente andrebbe rivisto e migliorato. Ma forse si dovrebbe porre l’accento proprio sull’intera  impalcatura del sistema di impiego. Pensiamo alla mancanza di incentivi, a retribuzioni poco adeguate e all’esagerata reiterazione di contratti a tempo determinato, che scoraggiano la stabilizzazione e la possibile progressione di carriera.

In tutto questo contesto a destare incredulità è però anche il fenomeno del ‘quick quitting‘ , che in italiano si potrebbe tradurre con ‘dimissioni rapide‘. Perché in una società in cui è già difficile trovare un lavoro stabile, si dovrebbe rinunciare all’agognato impiego?

Disoccupazione giovanile, dove vanno ricercate le cause

Partiamo con l’analizzare la disoccupazione. Troppe volte non facciamo altro che leggere statistiche e possibili soluzioni, spesso oggetto di dibattiti politici ma scarne in termini di concretezza.

Troppo poco però si affronta il problema a monte, cercando di soffermarsi sulle cause che hanno determinato un incremento dell’inoccupazione registratasi specialmente tra i giovani.

La situazione era già latente prima della pandemia che ci ha travolti. I problemi principali vanno infatti ricercati in una formazione generalista e teorica, poco attenta all’attribuzione delle dovute competenze professionali. E questo non può che incidere sul livello occupazionale, viste le ‘skills’ tecniche spesso richieste in determinati ambiti lavorativi. Molti ragazzi infatti magari si ritrovano con un background di alto livello, fatto di laurea, master, corsi, ma si ritrovano ad essere scartati in sede di colloquio per mancanza di conoscenze pratiche.

Un altro elemento lo si può inoltre ritrovare nella fragilità della struttura produttiva, soprattutto nelle zone del Mezzogiorno.

Infine, sebbene forse di striscio, anche il reddito di cittadinanza potrebbe aver inciso sul tasso di disoccupazione, costituendo purtroppo ormai per molti beneficiari uno strumento non solo di sostegno e aiuto in attesa di un impiego (come doveva essere originariamente), ma un escamotage per sfuggire al lavoro stesso. E ciò inevitabilmente finisce col ripercuotersi sull’andamento dell’occupazione.

Se poi consideriamo gli ultimi due anni di pandemia e l’attuale crisi causata dalla guerra in Ucraina, tra lockdown e rincaro energetico, il mercato del lavoro è stato messo a dura prova, con la chiusura di imprese e la conseguente perdita del lavoro.

Disoccupazione e perdita di identità sociale

La conseguenza che si riscontra proprio tra i giovani disoccupati consiste in una sorta di perdita di identità sociale. È come se, una volta perso quel determinato impiego, non riuscissero più a mettersi in gioco in un lavoro di livello inferiore. In pratica, sembrerebbe che la tendenza sia quella di pensare di ricoprire un posto nella società solo sulla base del ruolo occupazionale posseduto fino a quel momento.

Assumendo lo ‘status’ di disoccupato spesso molti giovani tendono anche ad avere ricadute sulla propria autostima, dovute soprattutto alla mancanza di prospettive future per poter realizzare i propri sogni.

‘Dimmissioni veloci’ , il nuovo fenomeno in nome del ‘benessere emotivo’

Alla luce di quanto detto finora sembrerebbe che ad attanagliare le nuove generazioni sia solo l’incertezza e l’instabilità lavorativa. Eppure, sempre in stretto collegamento col mondo del lavoro, sembra aver preso piede un nuovo fenomeno: il ‘quick quitting’ o ‘dimissioni veloci’.

Ma come?! Si ha la fortuna di avere un lavoro e ci si prende il lusso di lasciarlo dopo poco tempo dall’assunzione? La domanda viene spontanea, ma questa ‘attitudine’ ha comunque una sua spiegazione.

Partiamo dai dati. Ad aver lanciato questo allarme è stato l’Inps. Nel primo semestre del 2022 è stato registrato un consistente aumento di dimissioni, pari a ben oltre 1 milione e 80 mila, di cui circa 624 mila riguardano chi aveva un contratto a tempo indeterminato. E ciò che ancora più desta stupore è come questo fenomeno sia pure in crescita rispetto al biennio precedente. Se infatti da un lato sappiamo come sia difficile avere una stabilità lavorativa, rischiare lasciando un posto sicuro per buttarsi nell’avventura di una nuova ricerca lavorativa sembra inspiegabile.

La frequenza poi con cui si vuole cambiare lavoro varia. A volte lo si abbandona anche solo dopo quasi un anno e altre volte anche dopo 4-5 anni, quando ormai si dovrebbe aver raggiunto una certa esperienza, oltre ad un’aspirazione ad un ruolo di maggiore responsabilità e di maggiore peso salariale.

Eppure accade. E in base alla ricerca dell’agenzia Randstad le motivazioni risiederebbero nell’inseguimento di ciò che è stato definito ‘benessere emotivo. Insoddisfazione, demotivazione, mancanza di stimoli e obiettivi, delusione rispetto alle aspettative iniziali sono alcuni dei trends registrati. Tutto questo sembrerebbe spingere a dimettersi con facilità.

Cosa cercano nel lavoro le nuove generazioni?

In definitiva le nuove generazioni cosa si aspettano di trovare nel mondo del lavoro?

Ciò che traspare è un’insoddisfazione generale di una generazione che non intende più scendere a compromessi e che vorrebbe forse che fosse posto maggiore accento sull’individualità, senza trascurare comunque il rendimento e la professionalità. Il tutto però dovrebbe ruotare intorno al giusto equilibrio tra forza-lavoro, stimoli e riconoscimenti in termini economici.

Una volta trovata la giusta ricetta il mercato del lavoro ne beneficerebbe e sicuramente calerebbe l’ondata di dimissioni volontarie. Se poi si riuscisse anche ad investire sulle imprese e sulla giusta formazione professionale si riuscirebbe anche ad abbassare il livello di disoccupazione.

Ma chissà, forse stiamo chiedendo troppo.

 

 

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