II fenomeno del terrorismo era iniziato in sordina, agli inizi degli anni settanta, per esplodere verso la seconda metà del decennio. Sul finire di quel periodo storico si calcolarono oltre mille terroristi e, circa, diecimila fiancheggiatori. Tra il 1976 ed il 1980 ci furono circa diecimila episodi di violenza politica ed attentati. Uno di questi, avvenuto il 2 dicembre del 1977, riguarda lo psichiatra e professore universitario italiano Giorgio Coda. Erano le 18,30 quando quattro uomini di Prima Linea, organizzazione armata di estrema sinistra, entrò nell’appartamento privato dello psichiatra per sparagli alle gambe. La storia lo ricorderà come uno dei 10.000, ed oltre, episodi di violenza di quel lunghissimo decennio. Giorgio Coda, tre anni prima, era stato condannato dal tribunale per i dolorosi maltrattamenti che infliggeva ai pazienti con l’elettroshock nell’ospedale psichiatrico di Collegno. Chi era quel medico e cosa avveniva all’interno delle strutture che dirigeva?
Giorgio Coda nacque a Torino nel 1924. Era l’unico figlio di Carlo, piccolo industriale torinese, e Alda Vacchieri. Del suo periodo scolastico si ricorda che “eccelleva in condotta; quanto al profitto non era brillante, ma molto diligente. Qualche compagno lo ricorda sgobbone”. Nel 1943 si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Si laureò il 15 luglio del 1948 con una tesi in antropologia criminale. Nel 1955 si sposò con Giovanna Roviera. In campo professionale giunsero diversi riconoscimenti: fu nominato medico capo di sezione, l’equivalente del primario odierno, e nel 1963 ottenne la libera docenza in psichiatria. In breve tempo riuscì a conquistare la stima e l’ammirazione di molti colleghi. Divenne vicedirettore dell’ospedale psichiatrico di Collegno e direttore di Villa Azzurra, una struttura per bambini. La società stava mutando, anche se non tutti in campo accademico si accorsero di quel cambiamento. Di quello che avveniva all’interno delle strutture per la cura dei malati psichiatrici il popolo conosceva poco, forse nulla. Tale situazione mutò nel 1970, quando un’assistente sociale, Maria Repaci, del Centro di tutela minorile di Torino, inviò un rapporto al Tribunale per i minorenni.
Lo scandalo esplose il 26 luglio dello stesso anno, giorno in cui il settimanale l’Espresso pubblicò una foto, che ancora oggi desta ribrezzo e rabbia: l’immagine ritraeva una bambina di sette anni legata, nuda, ad un letto. Quella fotografia divenne il simbolo delle condizioni disumane in cui languivano i ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Collegno e Grugliasco, operose cittadine alle porte di Torino. La piccola ritratta, nuda, nella fotografia soggiornava nell’ospedale per bambini Villa Azzurra, diretto dall’eminente professor Giorgio Coda. La fotografia fu pubblicata sul paginone centrale del settimanale L’Espresso. Sotto l’immagine angosciosa un titolo sarcastico: Ma è per il suo bene. Nell’articolo che accompagnava il servizio fotografico, il giornalista Gabriele Invernizzi narrò che la bimba sorrise agli sconosciuti che si affacciavano al suo letto. L’immagine, che racconta un periodo storico del nostro paese, fu scattata dal fotografo Mauro Vallinotto. Lo scandalo travolse Coda. Lo psichiatra fu incriminato per il reato di abuso dei mezzi di correzione. Purtroppo fu applicata l’amnistia. Il 14 dicembre dello stesso anno il giudice istruttore ricevette un esposto dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali. Tale documento fu decisivo per far ripartire l’inchiesta ed il processo.
Cosa accadeva all’interno delle strutture gestire e dirette da Giorgio Coda?
Il trattamento medico, se così vogliamo chiamarlo, consisteva nell’applicazione di scariche di elettroshock durature ai genitali ed alla testa. Queste scariche non facevano perdere la coscienza al torturato ma gli provocavano lancinanti dolori. Secondo l’illuminata testimonianza di Giorgio Coda, psichiatra, tale trattamento avrebbe dovuto curare il paziente. La fantomatica cura era chiamata da Coda Elettroshock o elettromassaggio, a seconda che venisse praticato alla testa o ai genitali. Le scariche di elettroshock erano praticate senza anestesia e, quasi sempre, senza pomata e gomma in bocca. In questo modo al paziente saltavano i denti.
Durante il processo, Giorgio Coda ammise d’aver praticato circa 5000 elettromassaggi.
I trattamenti con elettroshock su quali vittime erano praticati?
La cura elettrica era applicata su alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali e masturbatori.
All’interno del libro Portami su quello che canta, del giornalista Alberto Papuzzi, si può riscontrare il sentimento reale che induceva Giorgio Coda, ed i suoi aiutanti, ad operare tali procedimenti violenti: sia l’elettroshock che l’elettromassaggio non erano strumenti di cura ma, bensì, atroci torture e punizioni.
Utilizzati anche su bambini.
Per comprendere l’orrore, non solo visto con gli occhi di oggi ma anche con quelli del tempo in cui tutto ciò avveniva, riporto integralmente la testimonianza di un paziente di Giorgio Coda:
“Sono stato uno dei massaggiati del dottor Coda… venni sottoposto a due elettromassaggi in pochi giorni successivi che furono per me una terribile tortura… Il trattamento mi fu fatto per punizione, come mi disse il sottocapo degli infermieri… Tutti gli infermieri mi dicevano che dovevo alzarmi e lavorare, altrimenti avrei subito altri elettromassaggi. Quando il Coda giunse di nuovo al mio letto, gli feci presenti le mie condizioni cardiocircolatorie, ma il Coda non ne tenne conto, cosi come faceva con gli altri. L’elettromassaggio era una vera tortura, come una folgorazione continuata a intensità crescente, che produce una vibrazione terribile al cervello e la sensazione di impazzire, nonché uno scintillamento continuo di luminosità: un veder le stelle. Durante l’applicazione, Coda mi diceva delle parole ironiche: Ti piace questo avvocato? Vedrai che dopo questo lavorerai”.
Ci furono diverse morti sospette durante il trattamento di Giorgio Coda. Alcuni suicidi verificatisi negli istituti fecero nascere il sospetto che possano essere stati provocati dalla paura della sofferenza dei trattamenti, come le donne accusate di stregoneria durante l’Inquisizione che, per evitare nuovamente le torture, ammettevano qualsiasi colpa. La tortura fisica diviene psicologica nel momento in cui il torturato comprende che sarà sottoposto nuovamente a trattamenti particolareggiati.
Un giorno di luglio del 1974 giunse la sentenza del processo che vedeva Giorgio Coda come imputato: fu dichiarato responsabile del reato ascritto limitatamente ai fatti relativi all’ospedale psichiatrico di Collegno.
Successivamente il difensore di Giorgio Coda ricorse in appello contro la sentenza di primo grado.
Il caso Coda, come molti altri ai suoi tempi, fu interpretato in chiave politica: in questa interpretazione il medico borghese, piccolo piccolo, Giorgio Coda si accaniva contro le fasce più deboli della società.
Prima Linea decise di gambizzare lo psichiatra nell’appartamento dove svolgeva visite private.
Giorgio Coda è tuttora vivente.
Molti dei suoi pazienti, malgrado avessero il favore dell’età, non gli sopravvissero.
Il caso Coda ha scosso e fatto discutere l’opinione pubblica. Il dibattito che ne è scaturito ha portato alla cosiddetta Legge Basaglia (legge 13 maggio 1978 n. 180), che ha abolito i principali articoli della precedente legge (14 febbraio 1904, n. 36) e istituito il TSO (Trattamento sanitario obbligatorio)], restringendo di molto il suo campo di applicazione e definendo procedure a più livelli per la sua attuazione.
Un’ultima piccola annotazione per il titolo del libro Portami su quello che canta, processo ad uno psichiatra: il titolo deriva da un’affermazione di Coda, il quale avrebbe sentito un malato cantare in un cortile dell’ospedale ed avrebbe deciso di praticargli un elettromassaggio, chiedendo all’infermiere: “portami su quello che canta”.
In questa piccola affermazione possiamo leggere il disprezzo di un uomo nei confronti della malattia mentale e, di conseguenza, della vita umana.
Fabio Casalini