Torturare sotto lo stemma della Repubblica Italiana

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Torturare i carcerati, in nome e per conto nostro sotto lo stemma della Repubblica Italiana che ci rappresenta tutti.


Il grado di civiltà di un paese si misura dalle sue carceri.
La frase di Voltaire è stra-nota ma è doveroso citarla. Resta la chiave per interpretare i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Avrete letto. Della morte di Hakimi Lamine, un detenuto massacrato di botte. Di un clima di intimidazioni e violenze. Di agenti della polizia penitenziaria che pare torturassero i carcerati. Sotto lo stemma della Repubblica. In nome e per conto nostro. In quella che non c’è modo di ridurre all’opera di poche “mele marce”.
Intendiamoci, quegli eccessi non sono la norma nelle nostre carceri. Si sono potuti verificare, però, solo dentro un clima di complicità e omertà. In un paese dove la violenza contro i detenuti è addirittura apprezzata, perlomeno da una parte dell’opinione pubblica. La stessa massa, frustrata ai limiti del sadismo, cui si rivolge la nostra peggior politica quando promette il “pugno di ferro”.
In una discesa verso l’inciviltà istituzionale che comincia sui palchi dei comizi e trova nelle carceri la sua conclusione. Barbara, da “macelleria messicana”, eppure inevitabile date le premesse. Non solo a Santa Maria Capua Vetere. Nel 2017 la principale causa di morte nelle nostre carceri è stata il suicidio. Si sono uccisi in 52 , mentre in 1123 hanno tentato di farlo: a conti fatti, circa il 2% della popolazione carceraria. Per non dire dell’autolesionismo. Quasi il 20% dei nostri detenuti non ha resistito alla tentazione di farsi del male. I casi denunciati sono stati 9.510. A Ivrea, quasi la metà dei carcerati, 109 su 224, si sarebbe prodotta volontariamente delle lesioni. Il tutto mentre i reati diminuiscono ma aumenta la popolazione carceraria. (E’ calata l’anno scorso, a dire il vero, per effetto dell’epidemia).
La dimostrazione che il numero dei detenuti ha poco a che vedere con i dati della criminalità. E’, piuttosto, il risultato della volontà di incarcerare sempre più persone, sempre più a lungo e per sempre più reati. Un po’ come in quegli Stati Uniti che restano il modello di giustizia che il felpato figuro, incommentabile proprio per non rischiare il carcere, continua ad indicare ai suoi seguaci. Mentre s’imporrebbe una lettura di Foucault. O almeno qualche minuto allo specchio. Per guardarci negli occhi e chiederci che razza di paese vogliamo diventare.

Daniel Di Schuler

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