Nella capitale blindata si è appena conclusa una doppia manifestazione. Da una parte appartenenti al mondo associazionistico e sindacale, portano sulle maglie un “non me sta bene che no” pronunciato qualche giorno fa dal quindicenne di Torre Maura Simone. Dall’altra Casapound, Forza Nuova e tutti i manifestanti convinti della necessità dello sgombero di circa sessanta rifugiati di etnia rom dal centro di accoglienza situato nel quartiere romano.
Forza Nuova, la stessa compagine politica che giovedì scorso ha rivendicato il transennamento, a Bologna, della Libreria delle donne in Via San Felice, intanto, ieri sera, ha organizzato un sit-in presso lo stabilimento in cui erano ospitati i rifugiati. Veniva rivendicata la propria provenienza politica e ribadita la ferma intenzione di ripulire ogni quartiere da qualunque individuo identificato come dannoso o potenzialmente pericoloso. Uno striscione recitava “Roma est all’attacco”, lo incorniciavano le croci celtiche e le braccia tese.
I simboli e i modi, ancora accade, colpiscono più dei messaggi. Questi poi si conoscono da tempo, e sono più o meno quelli che circolavano tra sudisti e nordisti, tra laici e religiosi, tra conservatori e progressisti e via dicendo, fino alla notte dei tempi e a quelle protoscimmie dedite al lancio delle clave che eravamo.
Ma tornado al presente: i simboli e i modi colpiscono più dei messaggi. Sapete perché? Perché in realtà parlano di più. Per noi nati negli anni Novanta questo è un principio chiaro e, allo stesso tempo, implicito. Siamo cresciuti sotto il bombardamento pubblicitario post disarmo nucleare. Vedevamo i loghi sulle cartelle dei nostri compagni di scuola e sapevamo il valore delle cose tramite i marchi. Quello che c’era prima era un simbolismo diverso e il valore di mercato traspariva solo in seconda istanza. Si parlava di valore di idee.
A volte sembra che ci manchi ancorarci a un mondo diviso. La rassicurazione di un muro all’ombra del quale crescere. E, forse, quello che succede a Roma, a Torre Maura, ne è un esempio. In un quartiere problematico per i servizi e per le tensioni sociali, entrano in campo le due squadre nazionali, ognuna col suo vessillo, con i suoi striscioni. Tutti accomunati dal bisogno di un simbolo per germogliare.
In mezzo sta un ragazzino, ma lui parla un’altra lingua, senza cori e senza contrassegni, che forse non abbiamo ancora imparato.