Torino, tra le città più antifasciste, custodisce segreti e battute che raccontano un capitolo affascinante della sua storia durante il ventennio fascista.
Durante il periodo del ventennio fascista a Torino, si diffuse un’arguta espressione su Benito Mussolini, il cui creatore rimane un mistero indecifrabile. Questa enigmatica affermazione, scoperta dallo storico Alessandro Barbero, circolava furtivamente tra gli abitanti di questa città. Era una formula pronunciata con uno sguardo complice, “Monsù Cerüti cul ch’a lu fica ‘n cül a tüti“, e andava ben oltre la sua superficiale volgarità. Questa frase segreta trasmetteva il messaggio che Torino non nutriva particolare affetto per il duce, e che il suo regime non aveva mai attecchito completamente nel cuore dell’operosa città.
Nel 1914, durante la sua prima visita, Mussolini non aveva ricevuto particolare attenzione poiché era all’epoca un personaggio relativamente oscuro. Tuttavia, il suo ritorno il 23-24 ottobre 1923, un secolo fa, doveva rappresentare un’occasione differente. Mussolini si recò alla fabbrica Fiat-Lingotto con l’intento di guadagnarsi il favore dei lavoratori. Le parole che pronunciò erano una tentata connessione con l’uditorio proletario:
“Io, che ho lavorato con le braccia e vengo dal popolo, vi saluto non con la simpatia dei demagoghi venditori di fumo, ma con la sincerità rude di un lavoratore, di un uomo che vuole imporre a tutti la disciplina necessaria. Abbiate la manifestazione della mia simpatia più fraterna con l’augurio che il primato europeo e mondiale della vostra fabbrica non abbia mai a cessare.”
La battuta di “monsù Cerutti,” come ricorda lo storico Barbero, rimase radicata tra gli operai piemontesi. Essi ricordavano bene che Mussolini si definiva “il più rivoluzionario dei socialisti“, ma sentivano di avere un conto aperto con lui. Dopo la Prima Guerra Mondiale, squadracce di vari tipi venivano utilizzate per reprimere le manifestazioni operaie, spesso con il beneplacito degli industriali. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, uno dei quadrumviri casalesi, ricordò che gli industriali cercavano di negoziare la loro difesa con l’intervento dei fascisti, spesso utilizzando ingenti somme di denaro.
Ma prima ancora che lo squadrismo fascista si sviluppasse appieno, gli arditi in camicia nera occuparono la Camera del Lavoro di corso Siccardi. Successivamente, sotto la guida del falso capitano Gino Covre, anche detentore di una medaglia d’oro, occuparono brutalmente la Camera del Lavoro, distruggendola definitivamente. Questi eventi furono solo il preludio a un periodo di violenza estrema che avrebbe segnato la città tra il 18 e il 22 dicembre 1922. Gli uomini di Piero Brandimarte, capitano dei Bersaglieri e medaglia d’argento, fecero il giro dei quartieri operai, trascinarono fuori dalle case 24 comunisti e socialisti, massacrando 15 di loro e lasciando gli altri dispersi, senza alcuna traccia, gettati nel fiume Po.
Come sottolinea sempre Barbero, “Riportare la pace nelle strade di Torino era indispensabile per guadagnare il consenso dell’unico cittadino a cui il duce non riuscì mai ad applicare la ‘cura Cerutti‘: il senatore Agnelli, fondatore e proprietario della Fiat, che faceva perdere la pazienza a chiunque“. Questo rapporto conflittuale tra Mussolini e Agnelli era evidente, nonostante una superficiale armonia di facciata. Mussolini non amava né Torino né i suoi operai, e viceversa. Per il liberale Piero Gobetti, gli operai torinesi costituivano quella che egli definiva l'”aristocrazia operaia,” una classe che non aveva alcun affetto per Mussolini.
Catapultandoci indietro nel tempo di dieci decenni, un periodo di consolidamento del regime. Il dittatore era impegnato a tessere elogi al passato militare del Piemonte sabaudo e inaugurò una lapide in memoria dei caduti fascisti nell’atrio del Municipio. Ma Torino aveva un ruolo ambivalente: pur essendo stata centrale nelle agitazioni rivoluzionarie dopo la Grande Guerra, era marginale nell’ascesa e nel trionfo del fascismo. Il primo fascio in città comparve nella primavera del 1919, ma le adesioni rimasero limitate a poche decine di “camice nere” che diffondevano materiale antisocialista. Il quadrumviro De Vecchi minacciò persino Agnelli, accusandolo di essere troppo tiepido nei confronti del fascismo. La relazione tra il regime e la città si sviluppò in modo anomalo, con gli industriali che bypassarono il partito locale per stabilire un canale di comunicazione diretto e privilegiato con Mussolini. La concentrazione della classe operaia nella città aveva creato una naturale convergenza di interessi tra i capitani d’industria e il leader fascista, poiché entrambi erano interessati a stabilizzare la situazione della capitale industriale del Nord.
Il Fiat Lingotto suscitò l’ammirazione persino del celebre architetto svizzero-francese Le Corbusier, il quale lo descrisse come un edificio eccezionale e luminoso, quasi una “fabbrica totale.” Questo edificio, costruito su iniziativa di Giovanni Agnelli, e progettato da Giacomo Matté-Trucco, presentava una struttura imponente con le sue 507×24 metri, due rampe elicoidali alle estremità e una pista di collaudo sul tetto. Mussolini stesso visitò questa meraviglia industriale nell’ottobre del 1923.
Il Lingotto aveva rappresentato una mossa strategica della Fiat, che nel 1915 aveva deliberato la costruzione di un “nuovo grande stabilimento a uso americano” per reinvestire i considerevoli profitti derivati dalla Grande Guerra. Durante i suoi anni d’oro, il Lingotto impiegava 11.822 operai e 967 impiegati. La descrizione dell’ingresso in fabbrica, come riportata da “Avanti!” nel marzo 1916, faceva emergere il forte senso di dedizione richiesto agli operai: “Entrando alla Fiat gli operai devono dimenticare nel modo più assoluto di essere uomini per rassegnarsi a essere considerati degli utensili“. Questo spirito frenetico influenzava non solo il lavoro ma anche il tempo libero, creando un ambiente in cui la città appariva come un vasto cantiere. Tuttavia, sotto la superficie, si avvertiva un crescente disagio e una crescente stanchezza morale.
Sessant’anni dopo, il 15 maggio 1939, Mussolini inaugurò Mirafiori, un altro importante stabilimento Fiat. Tuttavia, l’inaugurazione fu segnata da una mossa sorprendente: Mussolini si presentò a bordo di un’auto Alfa Romeo milanese, suscitando l’ira dei dirigenti e dei lavoratori Fiat. La reazione di Torino fu ancora più fredda rispetto al suo ritorno nell’ottobre del 1923. Questo, nonostante il senatore Giovanni Agnelli e il professor Vittorio Valletta avessero mobilitato migliaia di dipendenti e nonostante le note informative della polizia segreta fascista avrebbero dovuto indurre Mussolini a una maggiore cautela. Durante la visita, non vi fu alcuna ovazione per il duce, e alla sera, in albergo, si sentì dire “Porca città”.
A partire dal 31 marzo 2014, Benito Mussolini non è più cittadino onorario di Torino, come deciso dal Consiglio comunale. Questa decisione ha portato alla revoca dell’onorificenza che Mussolini aveva ricevuto con una delibera del Regio Commissario nell’11 maggio 1924. Nonostante alcuni tumulti durante la decisione, la mozione di revoca ha ottenuto una maggioranza assoluta con 29 voti a favore, 3 contrari e 5 astenuti. La motivazione sottolinea il ruolo di Mussolini come capo del regime fascista, responsabile della soppressione delle libertà civili, politiche e sociali, nonché delle violenze e delle torture di matrice etnica e politica. Inoltre, è stato evidenziato il coinvolgimento dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale accanto alla Germania nazista e la sua complicità nell’olocausto, il che ha portato a definire Mussolini come “vergognosamente corresponsabile dell’olocausto di 13 milioni di persone“.
Questi eventi, ricordati attraverso la penna dello storico Barbero, ci fanno riflettere sull’importanza delle dinamiche politiche e sociali in un periodo critico della storia italiana, con Torino che ha svolto un ruolo significativo in questa narrazione complessa.