Le serie TV, oltre che prodotti di intrattenimento sempre più coinvolgenti, possono anche essere oggetto della riflessione filosofica? Il filosofo Tommaso Ariemma ci ha detto la propria, lanciando una sfida: perché non iniziare a pensarle, finalmente, come strumenti didattici e nuove opere d’arte?
Le serie TV sono il fenomeno più importante nel mercato dell’intrattenimento contemporaneo. Tutti, anche chi non le fruisce in prima persona, conoscono titoli come Game of Thrones, Breaking Bad, The Handmaid’s Tale, Grey’s Anatomy, Westworld, Black Mirror. Si tratta di mondi narrativi che ci seducono, ci fanno divertire, ci emozionano, talvolta addirittura ci fanno arrabbiare o ci sconvolgono. Sono capaci, però, anche di innescare la nostra riflessione critica, stimolandoci a pensare diversamente il mondo e noi stessi? Secondo il filosofo Tommaso Ariemma, sì: la loro complessità tematica e tecnica, in crescita esponenziale negli ultimi anni, ne fa a pieno titolo opere d’arte. Le serie TV, insomma, sono qui per restare: anche se non ce ne accorgiamo o non vogliamo ammetterlo, stanno cambiando il volto della nostra cultura.
La riflessione filosofica, spiega l’autore di Game of Thrones. Imparare a stare al mondo con una serie TV, può continuare a snobbarle come fenomeni indegni. Oppure può compiere una scelta più interessante: uscire dalla propria torre d’avorio e accettare la sfida di pensare anche attraverso esse. Come? Ce lo ha spiegato in questa intervista.
Sia che le fruiamo con entusiasmo, sia che non c’interessino minimamente, le serie TV sono ormai oggetti molto familiari nel nostro panorama culturale. Sicuramente sono – almeno le più recenti – prodotti d’intrattenimento estremamente coinvolgenti; che cosa le rende, però, eventualmente anche “buone da pensare”?
Tommaso Ariemma:
«Le nuove serie TV sono, secondo me, buone da pensare a causa della loro complessità, della loro struttura complessa. Che cosa s’intende per “struttura complessa”? Un insieme eterogeneo di elementi che fa uscire lo spettatore dalla logica di una fruizione passiva ingaggiandolo, in certi casi addirittura sfidandolo. Tra questi elementi figura sicuramente una struttura narrativa intricata e varia, ricchissima, che spesso ruota attorno a un certo enigma o a un tema centrale. Un secondo elemento di primissimo piano, inoltre, sono i dialoghi. Essi sono concepiti per conferire un sempre maggiore spessore ai personaggi, dando voce alla loro visione del mondo e svelando dettagli del loro passato. Ma, citando – esplicitamente o implicitamente – grandi nomi e temi della filosofia, essi si comportano, come i personaggi stessi, anche da catalizzatori del pensiero.
Ora, alle serie TV si tende a pensare come a qualcosa di diverso dalla filosofia e, per molti versi, inconciliabile con essa. A uno sguardo più attento, però, questa inconciliabilità smette di sembrare un fatto inoppugnabile. Se pensiamo ai dialoghi platonici, ad esempio, risulta evidente come esistano profonde affinità tra questi due fenomeni culturali. Si può dire, infatti, che Platone sia stato il primo artefice del racconto seriale. E il suo Socrate è in effetti un personaggio riuscitissimo, che si scopre progressivamente mentre affronta vari temi e sfide intellettuali. Un personaggio che, nella sua costruzione e nel suo progressivo approfondimento, non è poi così diverso da un Walter White o da una Danaerys Targaryen.»
Dal tuo resoconto, la fruizione delle nuove serie TV si configura come un’esperienza estetica del tutto particolare. Può anche essere un’esperienza etica? E, se lo è, di che tipo?
Tommaso Ariemma:
«Bisogna fare attenzione, quando si usa il termine “etica”, a cosa s’intenda propriamente nel vasto campo dei suoi significati. Tuttavia, se ci riferiamo all’esercizio dell’esistenza e alla riflessione su di essa e sul suo orientamento, sì: le serie TV hanno certamente una ricaduta etica. Molti dei nostri atteggiamenti, comportamenti e visioni del mondo somigliano, in qualche modo, alle narrazioni che fruiamo. Ciò è vero per qualunque tipo di narrazione: quelle disponibili nel nostro panorama culturale plasmano il modo in cui amiamo, odiamo, entriamo reciprocamente in relazione. Le narrazioni, in altri termini, ci sono fondamentali per costruire la nostra storia personale, la nostra identità e il senso del mondo che ci circonda. E oggi le serie TV sono le narrazioni più potenti con cui veniamo in contatto.
Il loro impatto, tuttavia, naturalmente non consiste in un’edificazione morale: le serie TV non sono prescrittive. Possono, invece, funzionare molto bene come laboratori di pensiero in cui affrontare problemi eticamente spinosissimi. Pensiamo, ad esempio, a quanto sia difficile la valutazione di giusto e sbagliato nel contesto di Breaking Bad. O alla questione della natura del potere e del suo volgersi in tirannia in Game of Thrones. O, ancora, al problema di quanto in là dovrebbe spingersi lo sviluppo tecnologico sollevato da Black Mirror.
Le serie TV, inoltre, offrono simbologie potenti che possono essere trasposte nella realtà diventando elementi caratteristici di discorsi rivendicativi o di protesta. Basti pensare, ad esempio, alle manifestanti che, protestando contro iniziative contrarie ai diritti delle donne, hanno indossato l’uniforme delle ancelle-schiave di The Handmaid’s Tale. In un caso simile, è evidente quanto le nuove serie TV possano avere, agendo attraverso l’immaginario collettivo, ricadute etiche e perfino politiche molto evidenti.»
A fronte di questo, quanto conta l’interattività, il coinvolgimento attivo del pubblico?
Tommaso Ariemma:
«Sicuramente moltissimo, anche se va tenuto presente che questa dimensione non è una novità assoluta introdotta dalle nuove serie TV. Il coinvolgimento attivo del pubblico è una caratteristica della narrazione seriale almeno dall’opera di Charles Dickens e degli altri autori di romanzi a puntate. Evolvendo i mezzi tecnologici a disposizione – nonché, di conseguenza, il discorso narrativo stesso – naturalmente anche le modalità del coinvolgimento sono cambiate.
Penso, ad esempio, ai forum nei quali gli appassionati teorizzano le soluzioni agli enigmi proposti dalla trama e si confrontano sulle storyline dei personaggi. Questi spazi, oltre a creare una community di appassionati, costituiscono peraltro un importante strumento con cui sceneggiatori e produttori possono valutare l’evoluzione della serie. Ma penso anche alle fanfiction, le narrazioni con le quali i fan approfondiscono la psicologia dei personaggi, variano le trame, chiariscono i punti rimasti oscuri.
Tuttavia, se per “interattività” intendiamo la facoltà di scelta dello spettatore dentro e fuori dalla narrazione rispetto a certi contenuti, credo occorra una riflessione ulteriore. Piattaforme come Netflix, tanto nella proposta dei contenuti quanto nella costruzione di prodotti apparentemente interattivi come Bandersnatch, stanno mostrando il lato oscuro dell’interattività. Ossia il fatto che dove è maggiore l’interattività, maggiore sarà anche l’estrazione e la cattura di dati sulle preferenze dei fruitori. Ai quali facilmente, mentre i loro dati andranno a costituire un importante capitale, verrà propinato sempre lo stesso tipo di contenuti, in un ripetitivo appiattimento. Per questa ragione ritengo opportuno non accettare acriticamente l’interattività, ma problematizzarla, sottoporla a critica e comprenderne le finalità.»
La dimensione del coinvolgimento del pubblico, del resto, è risultata evidentissima nel caso di alcuni finali di serie particolarmente criticati e discussi. Guardandola dalla prospettiva della riflessione filosofica, dovremmo preferire un buon inizio o un buon finale?
Tommaso Ariemma:
«In realtà, molto dipende dai pensatori che si prendono come riferimento. Se ci si rifà ad Aristotele, allora si tenderà a cercare nell’opera una sorta di equilibrio e, soprattutto, la kàtharsis, cioè un giusto scioglimento finale. Questo schema è al cuore di molta cinematografia hollywoodiana, che sulla base degli insegnamenti della Poetica ha costruito alcuni dei finali più riusciti di sempre. Eppure, questo schema non è l’unico possibile.
Infatti, se si prendono ancora una volta a modello i dialoghi platonici, evidentemente né il finale né tantomeno l’inizio costituiscono il cuore dell’esperienza della fruizione. A essere importante è ciò che accade nel mezzo, così come nel mezzo sta il maggior piacere della narrazione. Ora, se le serie TV creano personaggi che sono, secondo una definizione deleuziana, “una vita”, sembra ragionevole somigli a una vita anche il loro percorso. E tuttavia, l’inizio di una vita in genere è dimenticabile – e, di fatto, dimenticato dagli individui – mentre la morte è uno scandalo inaccettabile. Ammettendo che il racconto seriale segua in qualche misura lo schema della vita, non dovrebbe stupire molto il fatto che spesso i finali sono detestati. Che si tratti di Lost, di Mad Men o di Game of Thrones, oltre la qualità del finale c’è la difficoltà di prendere congedo.»
In ultimo, come si coltiva e come si incoraggia una fruizione vigile, attiva e critica, delle nuove serie TV da parte dei più giovani?
Tommaso Ariemma:
«Per portare avanti un approccio alla visione critico, ragionato e fecondo, anzitutto docenti ed educatori dovrebbero conoscere le nuove serie TV. Il rifiuto di dare anche solo un’occhiata a questi prodotti, a mio parere, priva gli insegnanti di un canale di comunicazione importante con i ragazzi. Orientarsi nella serialità TV, così come nel mondo videoludico, potrebbe invece costituire una risorsa educativa fondamentale. Essendo diverse le routine e il rapporto dei giovani con la tecnologia, molto potrebbe essere fatto in termini di costruzione di gruppi di lavoro e di visione, analisi critica etc. A fondamento di tutto ciò, però, sta la scelta da parte dei docenti di scendere su un terreno per molti non familiare.
Spesso, facendo questo invito, mi sento rispondere che un tale approccio banalizza la filosofia. Non è forse più banale, però, continuare a riproporre gli stessi discorsi da manuale senza che essi abbiano alcuna reale ricaduta educativa? Personalmente, credo che l’attenzione a questa e altre forme di intrattenimento non implichi un’abbandono della complessità. Fruirne criticamente, al contrario, mi sembra possa aumentare la complessità, offrendo agli studenti nuovi percorsi per approcciare problematiche apparentemente estranee. Perché le serie TV, anche quando parlano di altri mondi, di fatto stanno parlando del nostro e al nostro.»
Valeria Meazza