Nell’articolo precedente, abbiamo già detto come l’opera di J.R.R. Tolkien fosse un solo macro-universo. L’autore non poté completarne la stesura. Fu sorpreso dalla morte, lasciando una marea di materiali ancora in fase di elaborazione. Ecco dunque che Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4 (Bologna 2013, Odoya) approda all’ “eredità impossibile” di Tolkien.
Al figlio Christopher toccò il compito di dare forma agli appunti che costituirono Il Silmarillion: raccolta dei miti cosmogonici e delle leggende della Terra di Mezzo. La pubblicazione postuma avvenne nel 1977. E questo anno fu una chiave di volta: l’avvio della produzione fantasy ispirata a Tolkien.
Tra i “figli”, va annoverato anche George R.R. Martin, dalle cui Cronache del ghiaccio e del fuoco è stata tratta la serie cult Game of Thrones – Il trono di spade.
“Da Tolkien Martin eredita la ricerca del senso di profondità della vicenda e dello scenario, e l’atmosfera malinconica di un mondo in profonda crisi, ma inserisce nel suo universo la politica, che rende molto più difficile tracciare una contrapposizione netta tra due cause, Luce contro Oscurità.” (p. 66).
La lacuna che Wu Ming 4 imputa agli epigoni di Tolkien è proprio l’assenza della tensione morale che animava il loro modello.
“Per ritrovare la stessa serietà e gravità presenti nelle pagine di Tolkien occorre forse rivolgersi alla narrativa dei sopravvissuti ai campi di sterminio.” (p. 76)
Ciò non toglie che il modo di lavorare “alla Penelope” che caratterizzava lo scrittore sia particolarmente indicato a stimolare la produzione di fan fiction. La produzione tolkieniana stessa è vasta e varia: spazia dalla poesia al legendarium, dalla cronologia alla fiaba, al romance. Della sua Terra di Mezzo, l’autore ha prodotto l’etnografia, la geografia, la toponomastica, la storia, la linguistica, la mitologia, la cosmogonia. Questa inusitata profondità è probabilmente il segreto del suo fascino: l’illusione perfetta dell’esistenza di un mondo.
La qualifica di “reazionario” che, talora, accompagna Tolkien è dovuta non soltanto alla temperie culturale dominante nel secondo dopoguerra (come dicevamo nell’articolo precedente), ma anche all’uso che ne fece la destra italiana negli anni Settanta. Il padre del fantasy era infatti
“escluso dalla critica di formazione gramsciana, ignorato dall’accademia e apprezzato dai lettori, quindi spendibile contro l’egemonia culturale di sinistra. Su queste premesse si sviluppò una lettura che […] pretendeva di fare di Tolkien una sorta di cultore del ‘simbolismo tradizionale’, ovvero della forza metastorica della Tradizione (con la T maiuscola), e un campione della battaglia culturale contro la modernità.” (p. 104)
Questo tipo d’interpretazione, unito al disprezzo di certa critica di sinistra per la letteratura fantasy, ha fatto sì che l’opera tolkieniana subisse una politicizzazione che le è estranea. A ciò si aggiunga la tendenza della critica italiana a collegare la religiosità dell’autore ai suoi scritti, leggendoli in un’ottica strettamente catto-allegorica. La tendenza ideologica/simbolica/allegorica si sarebbe ridimensionata nell’ultimo decennio, grazie alla conoscenza della critica anglosassone e internazionale in merito.
“Tuttavia, il caso ‘Tolkien in Italia’ […] rimane un curioso esempio di come sia possibile applicare a un’opera letteraria una lettura selettiva e a chiave, per farne una sorta di manifesto ideologico-culturale.” (p. 105)
A patto (naturalmente) di uccidere la sostanza della letteratura.
Dell’originalità di Tolkien fa sicuramente parte l’invenzione degli Hobbit: creature genuine, legate alla terra, attraverso la cui ottica è narrato Il Signore degli Anelli. Questo ha significato imprimere all’opera una prospettiva “dal basso”: una prospettiva che rivaluta l’imprevisto e le azioni degli umili. Il carattere pragmatico, bucolico e ingenuo di queste creature potrebbe derivare dall’idealizzazione della campagna inglese. Come le altre creature presenti nell’opera, rappresentano un aspetto dell’umanità: quello che ama la pace, ma che ha bisogno di riscoprire coraggio e tenacia per difenderla.
Per effettuare questa riscoperta, gli Hobbit hanno necessità d’incontrare l’ “altro”. Eccoli dunque confrontarsi con Nani (laboriosità, combattività, amore per oro e gemme), Elfi (arte, malinconia, amore per la natura e preminenza del genere femminile), Orchi (schiavitù e violenza), cavalieri (elitarismo guerriero). A tutto questo, cosa possono aggiungere gli Hobbit?
“Si accaniscono testardamente a restare umani, a essere duri senza perdere la gentilezza, o, per dirla con Gandalf, a essere «dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari».” (p. 183)
L’opera di Wu Ming 4 approda alla concezione mitica che Tolkien ha della vita: ovvero, quella per cui il confine tra esperienza e leggenda è relativo. Perché il modo umano di conoscere il mondo è quello di riordinarlo in una o più storie. In questo modo, il filo delle esperienze può essere ripreso dai posteri e andare “oltre la finitezza dei singoli esseri” (p. 210). È lo stesso meccanismo che permette alla vita fisica di continuare. Proprio il gettare buoni semi per il futuro è ciò che fa affrontare e superare le ombre del presente.
Erica Gazzoldi