Tiziana Ferrario racconta Lydia Franceschi e i temi attuali delle donne

Tiziana Ferrario j872hs9h abi7va

 

– Di Sabatina Napolitano –


Abbiamo intervistato Tiziana Ferrario per parlare del suo ultimo libro pubblicato da Chiarelettere dal titolo “La bambina di Odessa” scritto con lo scopo di raccontare la storia di Lydia Franceschi.

Tiziana nella raccolta di fonti, scritti e atti è stata aiutata dalla figlia di Lydia, Cristina Franceschi (che le fornisce documenti dall’archivio della Fondazione Franceschi), dagli autori del libro “Perché non sono nata coniglio” edito Alegre curato da Claudio Jampaglia, da Daniele Biacchessi (autore del libro “Roberto Franceschi. Processo di polizia”), dall’avvocato Marco Janni, legale della famiglia Franceschi e da tanti altri che hanno collaborato alla ricostruzione di questa storia che ha caratterizzato un momento tormentato del nostro paese.

La domanda a cui rispondiamo leggendo questo romanzo è sicuramente legata all’affermazione di Lydia “non si può vivere nell’odio. Non si semina niente”, eppure dall’inizio sembra non essere solo una storia di perdono e di grandezza d’animo. Il romanzo risponde a delle domande ben più profonde sui destini, come il problema delle aspettative delle donne italiane dal primo dopoguerra ai giorni nostri, così come la riflessione intorno alla dignità di essere al mondo, donne, libere, e per molte, madri.

Come possiamo contestualizzare la storia di Lydia in questo processo?

Lydia è stata tante cose. Ha attraversato quasi un secolo di storia. È morta l’anno scorso aveva 98 anni. E quindi ha vissuto una vita molto intesa, molto dolorosa, e però ha vissuto veramente, nel senso che non ha attraversato la vita con indifferenza. Nelle tante fasi che ha vissuto proprio perché la prima fase da bambina, in quella colonia di esuli, a Odessa sul Mar Nero, dove in quegli anni (lei nasce nel ’23), approdavano giovani europei che seguivano anche il sogno della rivoluzione bolscevica, c’era una grande rivoluzione in atto in quella che era diventata l’Unione Sovietica. E quindi tanti sognavano di fare la lotta del proletariato, perché era quello il linguaggio di quei tempi. La rivoluzione bolscevica si stava trasformando anche in qualcosa di molto repressivo. All’interno, di chi aveva immaginato la sconfitta degli zar, e chi era andato al potere cominciava un braccio di ferro molto violento che poi è sfociato anche nel periodo del terrore. Ma nel periodo in cui nasce Lydia ci sono ancora i sogni. Il padre scappa dai fascisti in Italia e approda in questo nuovo mondo. Lydia nasce da una storia d’amore tra il padre e questa giovane donna che si chiama come lei, Lydia, che era rimasta in Unione Sovietica, figlia di commercianti che se ne erano andati quando era caduto il regime degli zar ma lei era aggrappata al sogno della rivoluzione bolscevica. Era nato un grande amore ed era nata Lydia Franceschi. Ma la mamma, già da subito, dopo pochi giorni dal parto muore. Quello è il primo trauma che segna la vita di Lydia. Ce ne saranno poi tanti altri e quando ritorna in Italia è ancora una bambina e si ritrova orfana anche del padre. Però quello che colpisce di Lydia che farà anche la staffetta partigiana perché poi scoppia la guerra e quindi c’è questa immagine di Milano, medaglia d’oro della Resistenza, con la sua rete di portinerie dove venivano lasciati i messaggi. Lydia a quel tempo era una studentessa e insospettabile girava con i suoi libri sotto il braccio, nel cestino della bicicletta. In realtà però lavorava per quelli che erano gli amici del padre, per quei partigiani che stavano cercando di riportare la libertà all’Italia, dopo i Vent’anni del Fascismo e in piena guerra. E Milano è molto interessante vista con gli occhi di Lydia, questa ragazza.. e di queste portinarie che facevano entrare nei bagni, negli androni dei palazzi, e lei lasciava questi messaggi nella cassetta delle lettere, no anzi, nella cassetta dell’acqua dei bagni. Ed era qualcosa che non si sapeva… questo contenuto anche della rete delle portinerie. Lei ricorda quando finalmente arriva la costituzione, e le donne vanno per la prima volta a votare. Un altro passaggio fondamentale per la storia delle donne in questo Paese. Ricorda che si fece un vestito nuovo, perché capiva quanto era importante quel traguardo per le donne. E lei che aveva fatto la resistenza credeva profondamente nei valori della costituzione, soprattutto anche nella parità tra uomo e donna. E pensava che quella stessa parità che c’era stata durante la lotta partigiana, sarebbe poi stata trasferita anche nella società che stava nascendo. Nuova. Ma non è andata cosi. Infatti ci sono scritti di Lydia che raccontano anche questo suo cruccio di non essere riuscita a vedere la realizzazione della parità, nel nostro paese non esiste, come in tutto il mondo, ma nel nostro paese, i dati sulla parità sono piuttosto inquietanti. Ma Lydia è sempre stata conosciuta come la mamma di Roberto Franceschi, quella donna che ha fatto una battaglia giudiziaria lunghissima, per avere giustizia dopo che il figlio era stato ammazzato, quel 23 gennaio del ’73 in pieni anni di piombo per mano della polizia davanti all’Università Bocconi che lui frequentava durante una manifestazione. Quindi la verità Lydia non riuscirà mai ad averla completamente, ventisei anni di processi, possiamo immaginare che cosa sono stati per la famiglia Franceschi, e per Lydia, che adorava quel figlio con il quale condivideva tanti valori. Lui voleva diventare un economista, era uno dei leader del movimento studentesco, e immaginava una economia che avesse come obbiettivo quello di ridurre le disuguaglianze tra i ricchi e i poveri. Di distribuire le ricchezze. Quelli erano anni in cui c’erano ideologie molto forti. I ragazzi erano divisi tra di loro, c’era chi aveva scelto una strada, chi ne aveva scelto un’altra. In una città come Milano era molto forte l’eco delle bombe di piazza Fontana (era il ’69 quando fu messa la bomba alla banca dell’agricoltura) e quindi quelli erano anni di grandi tensioni, città con le fabbriche dove c’erano gli operai e c’erano tante lotte per ottenere più diritti. E gli anni ’70 sono stati anni cupi perché erano di piombo ma sono stati anni anche in cui sono stati raggiunti tanti diritti. È stato fatto lo Statuto dei lavoratori, è stato fatto il Diritto di famiglia. Ci sono state battaglie per il divorzio. Quindi sono state fatte leggi che hanno dato soprattutto alle donne tanti diritti, in generale agli italiani. Diritti che oggi diamo per scontati. Ma sui quali pero si sono combattute battaglie durissime, e i marciapiedi anche delle città sono stati insanguinati. Milano è una città che in tanti anni ancora ha le lapidi di chi in quegli anni è morto, per il nome di un ideale. Non tutti avevano gli stessi ideali, ci sono morti di destra, morti di sinistra, e sono stati anni durissimi e anni in cui Lydia fa la sua battaglia di verità e uno dei suoi crucchi è che non saprà mai chi ha sparato a suo figlio. Si sa che è stato ucciso con una arma della polizia ma il nome e il cognome del suo assassino non si saprà mai. La famiglia riceverà un risarcimento nel ’98 con il quale si alimenterà la Fondazione Franceschi che darà tutti gli anni borse di studio, a quei ricercatori che operano con gli stessi ideali che aveva Roberto Franceschi e aveva Lydia. Quindi ricercatori che si occupano di ridurre le disuguaglianze. E la fondazione oggi viene portata avanti da Cristina Franceschi e le sue figlie se ne occupano, e ha sempre fatto un grande lavoro anche nelle scuole.

Il romanzo risponde quindi sì alla questione del femminismo italiano, e della lotta partigiana, ma interpella anche le questioni legate alla burocrazia, ai media, al sistema universitario così come a quello giudiziario. Ed è in queste prospettive critiche etico-sociali che può collocarsi questo grandioso racconto. Così la battaglia per la liberazione femminile e le pari opportunità non è solo una questione di orizzonti e approdi, ma è un fatto basale perché la resistenza è una ideologia di partenza senza la quale non è possibile realmente affrontare un discorso di senno. Dialogo, accettazione del diverso, difesa della pace e dei più deboli, sono strumenti della libertà che ognuno ormai, dovrebbe avere in dotazione da diversi secoli. Ed è per questo che la ricerca della giustizia nel conoscere le cause della morte di Roberto Franceschi è legata alle lotte delle donne per la Resistenza, ma non solo, anche alla difesa dei diritti per gli alunni -soprattutto quelli con handicap- (la scuola ha un ruolo non marginale nella storia di Lydia). In questa ottica come può essere iscritta la storia di Lydia nella storia della resistenza italiana e del femminismo italiano?

Lydia è una donna che ha fatto battaglie sia durante la resistenza che in tutta la sua vita. ha presieduto l’Unione femminile italiana, quindi comunque si è battuta per i diritti delle donne. Ed è interessante andare a leggere anche le cose che lei ha scritto proprio perché ha sempre avuto come punti di riferimento i valori fissati dalla nostra Costituzione, l’art.3 che ci dice che abbiamo tutti pari diritti. Quindi lei anche da insegnante, e da preside, vuole che questi principi vengano applicati anche nella scuola. Ecco perché cerca di dare l’istruzione a più persone possibili, quando si ritrova con una classe di bambini con gli handicap, fa di tutto perché questi bambini non vengano lasciati ai margini ma ricevano la giusta assistenza. Si batte con il ministro dell’istruzione, e soprattutto perché vengano inseriti nelle classi insieme ai ragazzini che non hanno handicap. E anche lì è costretta a fare una grande battaglia perché le famiglie non vogliono. Perché alcuni genitori pensano che questo possa rallentare il programma di apprendimento degli altri allievi, dei loro figli. E Lydia dice, che l’istruzione deve essere data a tutti. Tutti devono essere messi in grado di imparare e vince la sua battaglia, ogni volta perché quei principi vengano applicati lei deve comunque battersi perché quando le cose sono nuove sono difficili da far accettare. Il personale della scuola non sempre la segue, e quindi ci sono dei dialoghi perché chiaramente io il libro l’ho scritto sotto forma di romanzo. Ma sono dialoghi che però sono tratti da lettere che lei ha scritto, da riunioni (per cui c’era il verbale di queste riunioni), e consigli tra insegnanti e la preside. Quindi la difficoltà che c’è comunque ogni volta a far passare delle scelte innovative ma Lydia Franceschi lo fa perché l’insegnamento è una passione per lei. Nel momento di maggiore delusione, quando la giustizia non riesce a trovare il nome di un colpevole, a causa dei tanti depistaggi che sono stati messi in campo, lei scrive una lettera di dimissioni al ministro dell’istruzione. Proprio perché sente di non poter più servire quello stato nel quale lei ha creduto come insegnante e come preside, e la ministra in quegli anni è la signora Falcucci. Rifiuta quelle dimissioni, e la convince a restare nella scuola e anche lì è una grande pagina di impegno. Lydia sceglie di andare avanti e va però questa volta a formare insegnanti di sostegno, all’interno della facoltà di psicologia, dell’università degli studi di Milano. All’epoca non esistevano gli insegnanti di sostegno, oggi li diamo per scontati ma prima non c’erano. E quindi c’è tutto un percorso di formazione anche per gli insegnanti, per riconoscere le difficoltà di apprendimento, per creare aiuti agli alunni che ne hanno più bisogno e quindi gli ultimi anni prima di andare in pensione li passerà a formare insegnanti di sostegno che le resteranno anche accanto. Ci sono degli incontri che lei fa con alcune ragazze che ha formato e alle quali lei dice “dovete essere delle spine nel fianco” e loro quando la incontrano le rispondono “continuiamo ad essere delle spine nel fianco”. Perché lei sa che per poter ottenere bisogna combattere. Niente ti viene regalato. E questo è anche un po’ un insegnamento che viene dalla sua vita, la vita l’ha buttata a terra in un modo violento. Lei ha saputo rialzarsi e ogni volta ha saputo combattere per raggiungere degli obbiettivi, non si è mai lasciata annientare. È un esempio per quando ci si sente depressi, per quando ci si sente messi da parte, quando ci si sente vittime di ingiustizie. Ecco, leggendo la sua storia, la sua vita, si ritrova secondo me, il coraggio di rialzarsi e di guardare avanti. Perché se ce l’ha fatta lei con tutto quello che gli è successo, ce la possiamo fare anche noi. Perché davvero non credo che sia stato facile sopravvivere alle disgrazie che Lydia Franceschi ha avuto nella vita così concentrate tutte su una unica persona. Eppure lei è sempre andata avanti a testa alta. Ritrovando nuove sfide ma facendo del bene anche per gli altri. Cioè non concentrandosi mai ed esclusivamente su sé stessa, ma ha sempre cercato di trovare la forza per rialzarsi e lavorare per la comunità, per gli altri, lasciando un segno, facendo la differenza. E c’è quella frase di suo figlio, mentre stavano discutendo perché lei non voleva che andasse a una manifestazione, (aveva paura ci fossero dei disordini e in quegli anni ce ne erano tanti di disordini e scontri tra studenti e polizia) e lui le dice “se succederà qualcosa tu continuerai nella mia lotta”. Per lei quella sarà la frase che la guiderà ogni volta che si ritroverà a cambiare lavoro, in un posto nuovo, in una scuola nuova, lei si chiederà “che cosa avrebbe fatto Roberto al mio posto”. E darà un senso al suo lavoro in questo dialogo continuo con il figlio che non c’è più ma con il quale lei condivideva gli stessi valori.

Tiziana racconta i suoi incontri con Lydia come in un diario. Ed è anche il registro colloquiale usato a rendere il racconto più toccante. Lydia Franceschi: staffetta partigiana, preside, madre e simbolo di una donna che usa il tempo come strumento di giustizia, democrazia e libertà senza odio, senza brutture. Trasformare il dolore è di certo possibile, ed è l’unico corridoio percorribile per chi non vuole passare la sua vita nell’inferno del rancore e della rabbia. Anche se il problema fondamentale di un omicidio dello stato senza spiegazione alcuna è il problema della violenza e della repressione. (E in questo il rimando è calzante ai fatti che stanno accadendo in Iran per la repressione del regime). È evidente che il docu-romanzo rimanda a storie giudiziarie che si ricollegano agli ideali studenteschi e non solo. La questione delle contestazioni non esiste perché non essendo in uno stato totalitario ma libero e democratico, i giovani e i lavoratori possono contestare e sono liberi di farlo. La riflessione è fissata sull’utilizzo della violenza verso chi liberamente sta manifestando un dissenso, di qualsiasi natura sia. È lo strumento della violenza ad essere strumento di guerra, così come strumento di guerra lo sono anche i depistaggi, i silenzi, la giustizia italiana che non c’è. Resilienza e coraggio sì, ma soprattutto difesa dei diritti. Potresti anche inquadrare la storia di Lydia come storia attualissima, rispetto a quello che sta accadendo anche in Iran? E in altre parti del mondo ma il regime reprime la libertà di pensiero (non solo delle donne ma anche dei lavoratori, e di persone che vogliono esprimere semplicemente delle idee diverse) e ancora nel 2022 sentiamo di questi racconti per la formazione di nuove ideologie.

Non solo reprime, ma uccide. In Iran sono più di due mesi che con coraggio le ragazze iraniane (al fianco ci sono anche i ragazzi) stanno manifestando chiedendo libertà. Con lo slogan urlano “donna, vita, libertà”. Che è uno slogan potente. È uno slogan in cui si chiedono diritti. Questa è una generazione che non si ricorda nulla della rivoluzione islamica, di Ayatollah Khomeyni che torna dopo la caduta del regime dello shah, e quindi però è una generazione che è abituata a stare su internet, quindi sa come va il mondo. E quindi questi giovani adolescenti (perché alcuni non hanno neanche vent’anni). C’è un ragazzo di nove anni che è morto durante le manifestazioni. Sono adolescenti, sedici anni, diciassette anni, che chiedono libertà e chiedono di poter vivere una vita senza repressione. Il velo è lo strumento di protesta perché dopo l’uccisione di Masha Amini, che portava male il velo e quindi è stata arrestata per quello. Dietro a questa protesta del velo, delle ciocche tagliate, c’è in realtà il disagio di un paese che da anni vive sotto embargo, di un paese che galleggia su un mare di petrolio, che è costretto a una povertà incredibile. Dove tutto è razionato proprio perché l’Iran, non è più riuscito a rientrare a pieno titolo nella comunità internazionale. E quindi c’è una popolazione che soffre, che soffre per la privazione dei diritti e della libertà, e soffre perché c’è una crisi economica durissima per le famiglie. E quindi la maggior parte sono giovani e quindi è una azione giovane e quindi chiedono di poter vivere, di lasciar perdere proibizioni e imposizioni date dalle autorità. Quindi ci vuole un grande coraggio perché la repressione è durissima, sono stati fatti tanti arresti, sono state uccise tante persone e molto non sappiamo di quello che sta succedendo perché appunto internet è spesso bloccato. Si riesce a ricevere e a vedere qualcosa, i video che questi ragazzi e queste ragazze mandano, insomma ma da giornalista vorrei sapere un po’ di più, vorrei poter essere lì a guardare che cosa sta succedendo, io ero in Iran nel 2009 quando ci fu una protesta violenta perché dopo le lezioni che avevano segnato la vittoria dell’onda verde dei riformisti, in realtà il presidente di allora, Aḥmadīnizhād, che era appunto al governo, e quindi non voleva assolutamente concedere la vittoria ai suoi avversari, aveva represso nel sangue, anche in quella occasione, le proteste. Le proteste dell’onda verde, delle persone che chiedevano riforme. E la repressione era durata pochi giorni, anche lì c’erano state ondate di arresti, di attivisti, di docenti universitari, di avvocati dei diritti umani, ma dopo poco era calato il silenzio. Noi giornalisti eravamo stati cacciati via dal paese. E da quel momento non c’erano più state proteste così forti, c’era stato qualche cos’altro. Nel 2019. Ma poca roba. Ma adesso sono oltre due mesi che vediamo queste proteste e loro dicono di non chiamarle proteste ma di chiamarle rivoluzione. Cioè le ragazze e i ragazzi iraniani che sono per le strade delle città iraniane, dicono “questa è una vera rivoluzione”, quello che colpisce è che non c’è una… non saprei come dire…c’è un grande silenzio da questa parte del mondo. Se ne parla poco. Non c’è (al di là di essersi tagliati quattro ciocche al parlamento europeo o qualche parlamentare qua, una ciocchetta qui, una ciocchetta là) dopodichè non c’è una solidarietà concreta con queste persone che hanno un coraggio enorme perché perdono la vita manifestando, e però con alcuni ce l’abbiamo questa solidarietà, con altri, con cui magari anche facciamo affari, (perché il petrolio è petrolio), stiamo in silenzio. E quindi anche questo va stigmatizzato, in questo momento, che i governi occidentali, non stanno premendo su l’Iran, perché vengano aiutate queste persone ad avere più diritti e più libertà. Succede con alcuni non succede con altri paesi.

Sì anche perché è un processo di occidentalizzazione. Quindi le donne occidentali e tutta quella che è la nostra cultura dovrebbe incontrarsi con la loro cultura. Questa è effettivamente una rivoluzione, dove non c’è una solidarietà.. no. Non c’è una grossa comunanza di intenti, e da parte dell’occidente ci dovrebbe essere.

Loro si sentono un po’ lasciati soli a combattere questa rivoluzione. È vero che le rivoluzioni le devono fare i popoli, che sono un fallimento quando vengono portate da fuori, noi abbiamo già avuto parecchie sconfitte, sull’idea di democrazia importata. Però è anche vero che vedere da oltre due mesi questi giovani in piazza e protestare, morire e finire nelle carceri… c’è un po’ troppo silenzio anche in quelle sedi (e penso all’ONU) e penso alle tante capitali occidentali dove forse si dovrebbe alzare una voce un po’ più forte di sostegno a queste proteste.

Sì, anche perché sono proteste per le quali, per noi sono impensabili. Quello che vivono queste donne, quello che vivono questi giovani è impensabile da parte di noi occidentali. Noi che stiamo più avanti almeno in questo dovremmo effettivamente farci sentire, certo da fuori, purtroppo non da dentro. Però farsi sentire (per chi già è arrivato a un certo punto di civiltà)…

Si però c’è una crisi energetica, c’è una guerra nel cuore dell’Europa. Sappiamo che abbiamo bisogno di fonti energetiche e l’Iran galleggia su un mare di petrolio.

Il 23 gennaio 1973 è una data per tutte le donne e per tutte le madri, mai più quell’orrore. Mai più strategia della tensione e lotta armata. Il fatto che il nostro passato di Resistenza sia stato così carico di violenza questo è forse dovuto ad una proiezione per cui agire era molto più importante di analizzare, perché reprimere non ha una descrizione sentimentale ma è solo violenza. L’azione senza analisi (forzata e a tutti i costi) così come la mancanza di dominio di sé, di capacità di controllare gli eventi con contrapposizioni (senza rifiutare le diversità, le disuguaglianze) è indice di un passato troppo burrascoso per continuare ad essere interpellato se non nella chiave dell’insegnamento. Ed è in quest’aura che appare la testimonianza intensa di Lydia, come protagonista riuscita e interessante di un passato di azione che però ha interessato tutte quelle vere esperienze di conversione di un paese, l’Italia dal primo dopoguerra, troppo estremista per comprendere che il cambiamento morale passa per l’integrazione, la normalizzazione degli elementi democratici, il ricorso alle soluzioni civili. In questa ottica il romanzo va a formare quello che è una coscienza civile, una identità consapevole per cui accanto alle parole “vittime innocenti” esistono quelle della “normalizzazione dei diritti chiesti dal movimento femminista”, “libertà di manifestare dissenso e opinioni diverse”. In questo la storia di Lydia, può essere la storia di una formazione di coscienza civile? Non solo per l’Italia?

Io penso proprio di sì perché tutta l’impostazione che Lydia dà alla sua vita è all’insegna di un impegno civile. Non abbiamo detto una curiosità. Che Lydia è stata anche la mia insegnante in una fase della mia vita all’inizio. Insomma avevo dodici anni e lei era la mia insegnante di matematica e di scienze. Ma non era solo un insegnante, era una donna che quando entrava in classe con la sua passione e il suo impegno, ti obbligava a tenere gli occhi aperti anche sul mondo. E quando tieni gli occhi aperti sul mondo è inevitabile che fai anche delle scelte civiche, che quando guardi e non attraversi la vita con indifferenza, sei obbligato a scegliere, sei obbligato a capire e scegli quello che per te è bene e giri le spalle al male. E questa è un’impostazione se ha la fortuna di ricevere da piccolo poi si porta dietro per tutta la vita. e quindi avere incontrato Lydia in questa fase della mia vita è stata una grande fortuna perché erano anni complessi e non si poteva far finta di attraversare la vita con indifferenza. E quindi l’impegno si inizia da subito, si inizia a scuola, si inizia in famiglia, quindi è un’impostazione che uno dà alla propria vita e trasmette ai propri figli. E non a caso Lydia ha avuto due figli, Cristina e Roberto, che in modi diversi però si sono sempre impegnati. Il figlio era impegnato nella realizzazione, dei suoi ideali e quelli erano anni in cui appunto c’erano le ribellioni degli studenti che chiedevano una scuola riformata. Una scuola più moderna, una scuola dove anche loro potessero partecipare alle decisioni. Non a caso, Lydia era sempre in ascolto anche degli studenti, non solo come madre ma anche come insegnante. E nella scuola di suo figlio nel momento in cui lo scontro ideologico è anche tra genitori, lei sceglie di fondare i genitori democratici. Proprio per dialogare con i giovani, e non capisce come mai c’era in alcune famiglie una contrapposizione genitori-figli. Anche lei discuteva con suo figlio, alla fine discutevano su opinioni diverse ma lei non riusciva a capire come alcuni genitori potessero essere contro i loro figli. È molto interessante addentrarsi nella sua vita e percorrere anche quella che è stata la storia del nostro paese. Le grandi battaglia attraversavano il paese ma attraversavano anche le famiglie. E quindi gli stili di vita e l’impostazione anche dell’autorità. Un salto nel passato per vedere gli sbagli di allora e capire cosa è servito a migliorare il paese. E oggi che si parla molto di merito, dobbiamo intenderci su cosa è il merito. perché Lydia lo spiega molto bene in queste sue battaglie, il merito significa anche dare a tutti le stesse opportunità. Perché il talento può essere distribuito in modo disorientato. Disordinato. Va un po’ ovunque il talento. Ma sono le opportunità che hai di dimostrare il tuo talento che fanno la differenza. E quelle non ci sono in modo uguale. Se nasci in un paese povero dell’Africa puoi avere tantissimo talento, nel canto, nel disegno, il talento può essere in varie cose. Ma come fai  a sapere di averlo e come fai a tirarlo fuori se non hai le opportunità di dimostrarlo? Quindi parlare di merito significa non solo premiare gli studenti più bravi ma dare a tutti la possibilità di dimostrare che si vale.

Cercare di eliminare le diseguaglianze, ma questa è una piaga mondiale.

Veniamo da anni in cui le diseguaglianze sono aumentate. La pandemia le ha aumentate ma poi appunto lo stiamo vedendo, aumentano le diseguaglianze. Sono anni difficili e chi è povero è diventato più povero. E la possibilità di migliorare la condizione di partenza, è complicata è molto più complicato rispetto al passato. E in Italia questo si avverte.

Per chiudere il nostro discorso. Femminicidi, abusi di potere, piazze e tribunali pieni di opportunistiche manifestazioni di diritti privati dati in pasto alla giustizia italiana, fino a quando la storia “chiude un occhio” difronte a un delitto. È contro questo “chiudere un occhio” che le donne ancora gridano la loro liberazione. Ed è impensabile che questo accada mediante un meccanismo violento. La violenza appartiene al mondo animale. La libertà di espressione non può essere affidata come ad una propaganda semplicistica ma è una intenzione sempre più contagiosa che permea i nostri immaginari, i rapporti personali, i discorsi comuni, non più come una materia prelibata ma come una realtà della comunicazione (per questo contenente rispetto, gentilezza, empatia e apertura mentale). La storia di Lydia è quella di una umanità viva, che raccoglie le buone ideologie per farne un patrimonio normalizzato, comune, dove ciò che ancora sembra traguardo è invece la normalità degli esseri dotati di ragione.

C’è ancora tanto da fare per la violenza sulle donne, per la parità. Certo oggi stiamo meglio di cinquanta anni fa, ma i dati li abbiamo visti anche in occasione del 25 di novembre, i dati sono comunque molto preoccupanti. È indispensabile agire su più fronti, perché le leggi ci sono ma purtroppo alcune volte non vengono applicate. E non sempre ci sono i fondi per applicarle. Perché è un lavoro preziosissimo quello che fanno i centri antiviolenza. Ma non sono sufficienti. I corsi di formazione, per le forze dell’ordine che sono spesso il primo incontro che le donne che hanno il coraggio di denunciare un compagno violento hanno. E non sempre sono attrezzati e preparati per rispondere alle esigenze di queste donne. Per cui ogni volta vediamo che succede che la donna che va a denunciare venga mandata a casa. Alcuni dati sono migliorati un po’ perché si è riusciti ad usare lo strumento dell’ammonimento. Per cui sono le forze dell’ordine che prendono l’uomo violento e lo avvisano e gli dicono “attenzione, non devi più comportarti cosi” o comunque gli impongono una serie di controlli. E questo è servito ad avere un po’ meno di femminicidi ma sono numeri veramente piccoli. C’è anche molto lavoro da fare sui bambini nelle scuole. Bisogna farne di più, superare gli stereotipi, bisogna insegnare ai ragazzi che le donne non sono di loro proprietà. E alle ragazze che non si devono far trattare come oggetti di proprietà, che l’amore è una altra cosa non è quello. Un compagno geloso non è un compagno che ti ama. È un compagno che ha dei problemi e deve risolverli e deve andare a farsi curare. Perché la gelosia non è un segno di amore ma è patologica, una patologia, una malattia e quindi un uomo che ti tiene lontano dai tuoi amici, che ti dice come ti devi vestire, che lentamente ti isola, e poi incomincia ad alzare la voce e poi incomincia a picchiare il pugno sul tavolo, e poi comincia a picchiarti il pugno addosso, è un uomo dal quale devi scappare, ma prima che inizia a picchiare te, da subito. Ci sono dei segnali molto molto chiari. Che possono solo sfociare in una violenza fisica. Si parte da una violenza psicologica, e poi si sfocia nella violenza fisica se non si scappa prima. Quindi servono azioni su più livelli che un po’ si fanno ma non è abbastanza quindi era uno dei crucci di Lydia Franceschi, perché come diceva serve una nuova resistenza. Perché lei diceva che dopo quello che ha dovuto combattere dopo il ’45 comunque ho fatto la mia nuova resistenza e però serve una nuova resistenza anche per le donne perché comunque la resistenza non è riuscita a portare quella parità che sognavamo quando stavamo a combattere per la libertà e parità.

 

Exit mobile version