Nel primo Ottocento, Ada MacGrath (Holly Hunter) arriva in Nuova Zelanda come sposa per procura di Alistair Stewart (Sam Neil). Ha la figlia Flora (Anna Paquin) a carico, un mutismo di ferro fin dall’infanzia ed un piano che è la sua gioia ed unico mezzo di espressione.
Non potendolo far trasportare dalla spiaggia dell’attracco fino a casa per la mancanza di voglia del marito, Ada soffre per la lontananza dall’oggetto. Non sa ancora di aver attratto George Baines (Harvey Keitel), socio del marito, naturalizzato maori.
L’uomo le propone un’offerta irrifiutabile: con la scusa di alcune lezioni di pianoforte, lei potrà suonare e lui prendersi certe libertà per riassaporare la presenza di una donna in casa.
Melodramma sulla comunicazione, Lezioni di piano (1993) divenne il biglietto da visita della neozelandese Jane Campion, portandole non solo la Palma d’Oro ma anche l’Oscar per la sceneggiatura, insieme a quelli per le due interpretazioni femminili.
Si tratta ancora una volta di una donna di grandi appetiti, come nel suo precedente film Sweetie ed una creatura, come la protagonista di Un angelo alla mia tavola, che non si esprime se non ad estremi e per vie traverse.
In questo caso, la Campion tocca la musica, caricando lo strumento del titolo con un potere feticistico che va a pari passo ad un autismo e ad una “possessione”. Sembra, all’inizio del film, che la musica non sia solo dentro di Ada, ma che sia proprio voce dello strumento stesso.
Come tutti i perversi, la protagonista vuole sentirsi sempre soggetto, in controllo: è Baines che usando il pianoforte per attirarla in gabbia la destabilizza, gioca a casa propria, la vuole come oggetto.
Questa frizione diventa attrazione assai velocemente ed è uno dei tanti esempi dell’ironia campioniana che è erede di quella di Buñuel e ben si accosta a quelle sensazioni letterarie che portano critici e amatori a ricordare nel film Emily Brontë, D.H. Lawrence e Hawthorne.
Si ricordi però, che l’ironia bronteana è sadica quanto tragica: la Campion, pur amando destabilizzare i propri personaggi, sa di star filmando una fiaba adulta, dove la violenza non è espressione di principi cosmici, ma di istinti.
I personaggi sono strani nel senso che per esprimere gli affetti non conoscono vie dirette ma solo percorsi alternativi, arabeschi. Sono, in senso più profondo, più infantili di Flora: la loro tenerezza è goffa, impacciata e questo rende più preziosi i momenti di liberazione.
Sul piano estetico la Campion è aiutata da Stuart Dryburgh in primis, direttore di una fotografia che nulla ha da invidiare al meglio di Storaro per l’uso dei toni, la resa dell’aria densa e umida dell’ambientazione.
Il film, recentemente restaurato dalla cineteca di Bologna, è una lezione magistrale di caratterizzazione, di grammatica cinematografica, brillante per sintesi come per analisi. Pur essendo il film che inaugura la maturità della Campion, è uno dei più raccomandabili per entrare nella filmografia dell’autrice.
Antonio Canzoniere