Già vedova e in pesanti ristrettezze economiche, nel 1826 la scrittrice Mary Shelley pubblicava The Last Man. Un romanzo apocalittico-pandemico che, oscurato dalla fama del Frankenstein (1818) ha faticato ad affermarsi all’attenzione di pubblico e critica. E che, invece, è un gioiellino che chi ama il gotico o il genere distopico non dovrebbe proprio farsi sfuggire.
Per chiunque sia vagamente a conoscenza della storia della letteratura inglese, il nome di Mary Shelley è un nome noto. Un nome che, nello specifico, si associa a una delle creazioni letterarie più fortunate non solo del XIX secolo, ma probabilmente di ogni epoca: Frankenstein. Eppure, nella produzione letteraria di Mary Shelley c’è molto di più. C’è, per esempio, un libro di viaggi, Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842, and 1843. Ci sono due romanzi storici, Valperga (1823) e The Fortunes of Perkin Warbeck (1830). Ci sono due romanzi che precorrono la critica femminista, analizzando la famiglia come contesto di potere e dominio: Lodore (1835) e Falkner (1837). E poi c’è The Last Man (1826), un romanzo distopico in cui l’autrice immagina la fine dell’umanità nel mondo che verrà.
Anche prima della pandemia di Covid-19, così come La peste di Camus e A Journal of the Plague Year di Defoe, The Last Man era un libro prezioso. Ora che, però, ci è molto meno difficile immaginare lo scenario di un’epidemia globale, questo romanzo è diventato addirittura necessario. Perché, dunque, dovremmo (ri)scoprirlo?
The Last Man: il contesto e l’origine dell’opera
Quando, nel 1824, Mary Shelley inizia a concepire quest’opera, in Europa l’indagine (narrativa e non) sulla fine dell’umanità è di moda. Colpa, forse, del trauma culturale delle rivoluzioni francese e americana, non ancora superato dal Vecchio Continente. Ma anche del cosiddetto “Anno Senza Estate”, il 1816, in cui in Europa si sono registrate violente precipitazioni e un clima più freddo. La causa è il rilascio di zolfo nell’atmosfera causato dall’eruzione del Monte Tambora, nelle Indie Olandesi, l’anno precedente. Un fenomeno chiaro, spiegabile, ma che ha eccitato oltremisura l’immaginario dell’epoca. Portando un poeta del calibro di Lord Byron a produrre a sua volta il proprio poema sulla fine del mondo, Darkness (1816). Ci sono poi da considerare anche le allarmanti, ma ancora vaghe, notizie che arrivano dall’India su un’epidemia di colera. L’autrice non può saperlo, ma quel morbo arriverà davvero in Inghilterra dopo il 1830.
Eppure, non sarebbe corretto dire che il romanzo propriamente nasca dalla temperie culturale dell’epoca. Questa storia, prima ancora, nasce da una sensazione che la nostra epoca conosce bene. Che, probabilmente, conosceva molto bene prima ancora dei vari lock-down. E cioè la solitudine. Il marito di Mary, Percy Bysshe Shelley, ha fatto naufragio con la sua barca al largo di Lerici affogando nel 1822. Dei diversi figli che avevano avuto, soltanto il piccolo Percy Florence è sopravvissuto e Mary teme di perderlo. Lord Byron muore nel 1824. La sorellastra e amica di una vita Claire Clairmont è lontana. E il suocero le fa la guerra, lottando affinché le opere di suo marito restino inedite. Mentre scrive, come rivelano i suoi diari, l’autrice si sente come l’ultima superstite di una razza estinta. Qualcuno che sopravvive, insomma, guardando il mondo finire.
Lo sguardo di una donna disincantata in un mondo di eroi romantici
Dunque The Last Man è un’elegia, un lamento funebre per i begli anni andati e per i propri cari, che si estende poi all’umanità? Niente affatto. Quando scrive questo romanzo, Mary Shelley non è più la ragazzina timida e introversa che ascoltava adorante suo marito e Lord Byron discorrere a Ginevra. Dei poeti romantici e dei loro ideali ne ha avuto fin sopra i capelli. E altrettanto della disputa dal sapore tipicamente illuminista che aveva impegnato suo padre, William Godwin, contro il reverendo Thomas Malthus, un paio di decenni prima. L’argomento del contendere, allora, era se per l’umanità si stesse aprendo un luminoso futuro, come voleva Godwin, oppure una certa apocalisse, come argomentava Malthus. Donna fatta, Mary Shelley pesca a piene mani dalla sua sterminata cultura e dalla sua amarissima esperienza e prende posizione. Gridando vendetta, per certi versi, all’immaginario di una cultura da cui si sente tradita.
Uno spostamento prospettico profetico
Di certo, però, un simile grido di vendetta non sarebbe potuto venire da un saggio: non da una donna, non in quell’epoca. Molto più sicuro ed efficace, allora, affidarlo a un racconto. O, meglio ancora, a un racconto dentro un racconto.
The Last Man, infatti, non comincia alla fine immaginaria del XXI secolo, ma nel XIX, presso l’Antro della Sibilla nelle vicinanze di Napoli. La voce narrante, asessuata ma identificabile con Mary, riferisce di aver trovato questa storia nell’ipogeo della sacerdotessa, raggiunto durante una rischiosa esplorazione con un compagno. Non solo trovata: faticosamente ricostruita e tradotta, poiché era scritta in latino su alcune foglie ammucchiate. Di conseguenza, la narrazione a seguire si configura come un duplice dono concepito nella solitudine. Quello della Sibilla, che ha gettato lo sguardo nel futuro traendone visioni del mondo che sarebbe venuto e trascrivendole. E quello di chi copia, traduce e ricuce, affinché il mondo possa sapere. Si tratta di un gesto semplice, di cura. Un gesto che non può impedire la catastrofe, ma che già di per sé fa tutta la differenza del mondo.
The Last Man: la lezione dell’ultimo uomo
Quella che in The Last Man colpisce la neoistituita Repubblica d’Inghilterra è una catastrofe inattesa, ma non imponderabile. La Peste, infatti, infuria già a Est, mentre a Westminster un manipolo di uomini trama per impadronirsi del potere. Quando Raymond (modellato su Lord Byron) diventa Lord Protettore, sembra che magnifiche sorti attendano il Paese. Eppure, anche se si presenta come un Titano, Raymond è solo un uomo che ama, sbaglia, fugge. Diverso da lui è l’amico Adrian, discendente dell’ultimo sovrano, che quando il mondo comincia a crollare si spende per la salvezza del suo popolo. Diverso, sì, ma ugualmente votato alla sconfitta, così come quel Percy Shelley cui il personaggio è ispirato.
A osservare e accompagnare le loro vicissitudini tra occidente e oriente è Lionel Verney, ex ragazzo selvaggio tratto da Adrian alla civiltà. Lui è l’ultimo uomo, il testimone della sconcertante bellezza e della ferina bruttezza che l’umanità sa esprimere un momento prima della fine.
Alter ego narrativo di Mary Shelley, Lionel mostra che nessuna utopia attende gli umani al crollo delle istituzioni, come avrebbe voluto Godwin. E che, nondimeno, l’umanità non è quella belva descritta da Malthus con cinico piacere. Similmente, attraverso i suoi occhi si intravvede una fitta rete di crepe dentro gli ideali romantici. Non regge, infatti, l’eroismo titanico, che si mostra come un alibi individualista e una via di fuga. Ma non reggono nemmeno le consolazioni della Natura e dell’Arte, che restano indifferenti alla sofferenza e alla solitudine dell’ultimo uomo.
The Last Man di Mary Shelley, insomma, ci impartisce una lezione dura ma rilevante. Essendo possibile la fine della specie, con essa dovremo confrontarci attraverso la relazione con gli altri e con noi stessi. Non ci sarà altra bellezza a salvarci, se non quella che sapremo eventualmente scovare dentro di noi.