Scorsese torna alla sua vecchia passione per i gangster movie. Il nuovo film uscito ieri per Netflix racconta in primis la capacità di interpretare e riprendere con sguardo singolare le storie del male.
“The Irishman”, il nuovo film di Marin Scorsese, è un gangster movie. Il genere ha circa 90 anni e nasce negli USA durante l’epoca del proibizionismo. Tra alti e bassi le storie della criminalità organizzata sono giunte fino ad oggi. Le declinazioni che hanno assunto le gangster stories sono ormai diversificate per sottogeneri, non ultimo quello seriale delle fictions del piccolo schermo. La piattaforma Netflix era l’unica in grado di sostenere i costi della tecnologia di ringiovanimento digitale FVX richiesta da Scorsese per la realizzazione della sua ultima fatica.
Chi conosce le modalità di sviluppo delle trame gangster sa che, generalmente, ruotano attorno all’ascesa e alla conseguente caduta del protagonista all’interno del mondo criminale. Se esiste qualcosa che Scorsese non ha mai tentato, fin dal primigenio Mean Street, è stato l’ardire di modificare uno schema così lineare. Il contributo del tutto innovativo da parte del regista americano si muove su dinamiche differenti e, in un certo senso, meno esplicite.
Nel lungo percorso che prende avvio negli anni 70′ e arriva fino a “The Irishman” Scorese”ha lavorato metodicamente su un piano stilistico pervasivo e autentico. Alla riscoperta del genere in chiave canonica dovuta all’uscita de “Il Padrino“, il regista ha risposto con “Quei bravi ragazzi” su una linea differente. Le pose solenni memori degli anni 30′ lasciano spazio a dialoghi rapidi e spesso inconcludenti, che vengono mitigati da una voce narrante fuoricampo.
Portare la normalità di una discussione sui generis all’interno di una diatriba sulla necessità di un omicidio è stata una delle intuizioni migliori di Scorsese, e i film di Quentin Trantino ne portano gli evidenti segni. Si aggiunga un’attenzione maniacale per il montaggio, per il movimento di camera che accompagna i gesti dei protagonisti. Un’operazione che rende riconoscibili le pellicole del cineasta attraverso gli anni. A titolo d’esempio basti pensare alle scene che riprendono delle semplici telefonate in cui, secondo uno schema consequenziale repentino, si succedono gesti immediati e carichi di tensioni che hanno subitanee ricadute sulla trama.
Anche in questo, nel rendere queste storie del male più vicine, più ritmate e frenetiche, vittima, come tutti, dei propri tempi, la mano di Scorsese ha fatto scuola. Anche in questo “The Irishman” dimostra, ancora una volta, le capacità del maestro. Ma l’importanza dell’opera risiede nel fatto che non cede alle semplificazioni, agli agi accomodanti della contemporaneità. “The Irishman” dimostra quanto l’occhio d’autore possa ancora regalare.
La trama, tratta dalla vera storia di Frank Sheeran, prima volontario nella seconda guerra mondiale, poi camionista e, infine gangster, ha tutti gli ingredienti del gangster movie tradizionale. Frank entra in contatto con Jimmy Hoffa, noto sindacalista della International Brotherhood of Teamsters tramite l’intercessione del boss malavitoso italo americano Russel Bufalino. Si susseguono intrecci di potere e tradimenti sanguinosi che è lo stesso Frank a contestualizzare.
L’introduzione della storia vera, non solo di quella dei rapporti personali tra Sheeran, Hoffa e Bufalino, ma quella della quotidianità degli anni 60′, è forse il tratto più inconsueto per Scorsese. La scelta di innestare i fatti salienti della storia americana contemporanea nel racconto delle vicende personali di Sheeran segna il grado di acume del regista. Scorsese opera sapientemente e senza abbandonarsi a virtuosismi sterili, dimostrando di poter offrire ancora degli scorci, delle angolature, da cui ottenere nuove sfumature.
Innovato un genere è diventato un classico. Tuttora stupisce la capacità del regista di rendere garbatamente vitale, tra sangue e violenze, un film che è già stato definito un testamento.
Paolo Onnis