Perché Marieke Lucas Rijneveld ha rinunciato alla traduzione dell’opera “The hill we climb” di Amanda Gorman?
Quando ha recitato la sua poesia “The hill we climb” alla cerimonia di inaugurazione dell’era presidenziale Biden-Harris, il volto di Amanda Gorman ha catturato l’attenzione del mondo intero. E con esso, le parole pronunciate dalla poetessa hanno raggiunto le orecchie di una platea mondiale. Ormai vicina al suo ventitreesimo compleanno, la Gorman usa sapientemente la sua voce per dare eco a coloro che non sono ascoltati. A fine marzo è prevista, anche in Italia, la pubblicazione del libro contenente l’ormai celebre poesie “The hill we climb”. Come in altri paesi, dunque, sarà necessario tradurre le parole della poetessa ed è dall’Olanda che arriva la prima polemica a riguardo.
Si chiama Marieke Lucas Rijneveld, il suo nome forse sarà indifferente ai più ma è una giovane promessa della letteratura olandese. In Italia l’editore Nutrimenti ha pubblicato il romanzo d’esordio “Il disagio della sera” che ha vinto anche l’International Booker Prize 2019.
Inoltre, Rijneveld si identifica come non binary ed i pronomi di riferimento scelti sono they/them.
Che cosa unisce Marieke Lucas Rijneveld ad Amanda Gorman?
Sono entrambe due persone di incredibile talento e sono entrambe due persone appartenenti a comunità marginalizzate e discriminate. Nella caso di Gorman, la comunità nera. Nel caso di Rijneveld, la comunità non binary.
Ma soprattutto, tra di loro sarebbe anche dovuto avvenire un importante incontro professionale. A Rijneveld, infatti, era stato affidato l’incarico di tradurre “The hill we climb” per l’editore olandese Meulenhoff. La scelta era stata accettata dalla stessa Gorman e approvata dal suo editore. Eppure, il 26 febbraio scorso, con un breve testo su Twitter, Rijneveld ha comunicato la decisione di rifiutare l’incarico.
“Mi sconvolge lo scalpore causato dal mio coinvolgimento nella diffusione del messaggio di Amanda Gorman e capisco le persone che si sentono ferite dalla decisione della casa editrice di scegliere me”
– Marieke Lucas Rijneveld su Twitter
Ma da cosa è stato causato dunque tanto scalpore? Dalla scelta di far tradurre la Gorman ad una persona bianca, conoscendo l’importanza politica e sociale che le parole della poetessa americana hanno per tutta la comunità nera.
Prima che qualcuno possa gridare alla dittatura del politicamente corretto, approfondiamo la questione
Conosciamo perfettamente la tendenza nostrana che porta immediatamente ad urlare allo scandalo in simili situazioni. Ed infatti, come impeccabili distruttori del pensiero critico, basta un rapido sguardo online per capire come giornali italiani stiano trattando la questione. Titoli fuorvianti e un’ammirabile accozzaglia di contenuti superficiali.
“La poetessa afroamericana non può essere tradotta dalla “troppo bianca” scrittrice olandese”;
“Questa mortale alleanza fra femminismo radicale, woke culture e senso di colpa puritano-americano si proietta sulla nostra Europa e ci fa sentire, in quanto bianchi, tutti razzisti”;
“Il razzismo del politicamente corretto”.
Potremmo continuare con gli esempi. Ma forse è meglio approfondire la questione con maggiore senso di responsabilità di quanto non dimostrino questi giornali. Pare scontato dirlo, ma a quanto pare non troppo: la faccenda è più complicata di quello che sembra.
Ad una prima lettura della notizia, è lecito chiedersi se la portata della polemica sia davvero meritevole di travolgere Rijneveld. Questo dubbio potrebbe sorgere anzitutto pensando al fatto che la scelta ricaduta su Rijneveld fosse stata approvata dalla stessa autrice di “The hill we climb”.
E nondimeno, pensando al fatto che Rijneveld è una persona non binary. Ed in quanto tale, rappresenta una categoria che, anche dal punto di vista lavorativo, viene discriminata. Spesso si parla di quanto persone appartenenti alla comunità queer vengano marginalizzate, con la conseguente perdita di potere sociale ed economico. In questo senso, la sua decisione appare come la rinuncia inevitabile ad un’opportunità di lavoro non indifferente che avrebbe donato valore e visibiità a Rijneveld come artista e come identità.
D’altro canto, la stessa appartenenza di Rijneveld ad una categoria marginalizzata probabilmente è d’aiuto alla sua sensibilità nel comprendere che è necessario fare un passo indietro. Quando una minoranza avanza una richiesta è più facile che sia compresa da qualcuno che appartiene ad un’altra minoranza. Accogliere una critica che viene mossa da una categoria relegata ai margini, è comprensibile se sai sulla tua pelle cosa si prova ad essere una persona relegata ai margini.
Potrebbe essere questo ragionamento ad aver portato Rijneveld a fare un passo indietro.
C’è un ultimo fattore, forse decisivo, nel comprendere a fondo la questione: il valore politico della traduzione.
Come spiega Laura Fontanella ne “Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer“, la traduzione può essere vista come una mediazione tra sistemi di potere. E quindi, come uno strumento politico necessario per cambiare le narrazioni dominanti. La traduzione, insomma, attraverso i giusti metodi, sarebbe capace di sovvertire il potere in un’ottica transfemminista, inclusiva ed intersezionale.
Sarebbe bello che l’approccio intersezionale permettesse alle categorie marginalizzate di collaborare sempre insieme, mescolando le proprie abilità in un connubio di forze ed identità diverse. E quello tra Gorman e Rijneveld potrebbe esserne un esempio perfetto, innalzando la poesia a portavoce del sé collettivo, la sua funzione più elevata. Tuttavia non si può non tenere in considerazione che ciascuna minoranza porta avanti le proprie battaglie, che non sono uguali a quelle delle altre minoranze. Perché sono il risultato di storie diverse, di pregiudizi diversi, di discriminazioni diverse, di differenti stigma e dunque di esigenze diverse, di movimenti culturali e sociali di diversa portata. Anche se uniti dal medesimo obiettivo: l’inclusività.
Alla luce di tutto questo possiamo trarre le nostre conclusioni. E’ giusto che una persona bianca rinunci alla traduzione di una poesia dal valore politico scritta da una poetessa nera? Oppure, sarebbe più corretto che il valore della poesia stessa trascenda l’anagrafica e, come in questo caso, la funzione sociale di chi l’ha scritta?
Carola Varano
Massì, va tutto bene, basta non vedere l’elefante nella stanza. Adesso la scusa per giustificare il razzismo della comunità nera verso una bianca, o sarebbe meglio dire appartenente alla comunità LGBT*, è che “ciascuna minoranza porta avanti le proprie battaglie, che non sono uguali a quelle delle altre minoranze”.
Insomma, sarebbe bello un “approccio intersezionale” che mette assieme “un connubio di forze ed identità diverse”, come sarebbe stato questo, ma sono “storie diverse, pregiudizi diversi, discriminazioni diverse, differenti stigma e dunque di esigenze diverse, di movimenti culturali e sociali di diversa portata”. Dunque va pur bene una discriminazione, purché si salvi la faccia di essere “uniti dal medesimo obiettivo: l’inclusività”, anche se attuate attraverso la più bieca esclusione