Il mondo è rimasto quello lì. La società italiana, i suoi gusti, le sue tendenze, quelle logiche che fanno andare avanti alcuni e restare indietro altri, sono ancora descritti nelle poche righe di un biglietto ritrovato nella stanza numero 219, dell’ Hotel Savoy di Sanremo, alle prime ore del 27 gennaio 1967. Qualcuno ne mette in dubbio l’autenticità, altri dicono addirittura si tratti di righe scritte per depistare. Ma accanto al corpo senza vita di Luigi Tenco, esattamente 50 anni fa, c’erano queste parole: “ Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
Il mondo è ancora oggi quello che Tenco abbandonava 50 anni fa, puntandosi una pistola alla tempia. Una calibro 22. E non era l’eliminazione della canzone cantata al Festival insieme a Dalida, la speranza delusa di un ripescaggio, una serie di situazioni che non andavano come qualsiasi artista vorrebbe. Era un mondo che non era fatto e continua a non essere fatto per quelli che non amano le canzonette e le copertine, la banalità dei contenuti nascosti da forme stravaganti, l’apoteosi di rumori e suoni che svuota di significato le parole e i testi. Luigi Tenco e altri come lui non erano fatti per quel mondo.
In una recente intervista, Gino Paoli è tornato a parlare dell’amico compagno di quella “scuola genovese”, che vide crescere e fare successo De André, Bruno Lauzi, Umberto Bindi. Gino Paoli, riguardo a quella ultima sera di Tenco, dice che si toccava con mano la sua estraneità, come se si trovasse in un altro mondo. E involontariamente con le sue parole, Paoli coglie ciò che sta dietro un suicido che racconta al tempo stesso il dramma di un uomo, di un artista, il dramma di una società travolta dal boom economico e dalle dinamiche del capitalismo rampante che lasciava indietro senza pietà chi non riusciva ad andare a tempo, chi non si omologava, chi non era bravo a giocare con i numeri alti.
Di “un giovane idealista”, parla di lui Aldo Colonna, in una recente biografia sul cantante, sottolineando il suo “assillo di essere costantemente significativo”, il suo essere a disagio in un mondo in cui si faceva strada lo star system a suon di canzonette mentre lui attraverso la musica voleva impegnarsi. Impegno che per lui era anche sociale, politico, ma in senso lato, insito nelle sue canzoni più esplicitamente di protesta, da Cara Maestra a Ognuno è Libero, così come in Ciao Amore Ciao, brano che tocca il tema dell’emigrazione degli italiani verso l’America, e nei romantici versi di classici quali Mi Sono Innamorato di Te e Vedrai Vedrai.
Ma quel mondo non faceva per lui. Era un mondo frenetico, estremamente ingiusto, dove la velocità e la quantità avevano rimpiazzato la qualità e il senso. Un mondo che a chi voleva essere a tutti i costi “significativo”, o chiudeva le porte oppure rendeva la vita insopportabile. E proprio “la vie m’est insupportable” scriverà Dalida, anche lei su un biglietto ritrovato nella sua stanza, prima di compiere quel gesto estremo che li avrà ricongiunti “lontano nel tempo” a parlare di un amore ormai troppo lontano.
Rileggere quel biglietto di Luigi Tenco, cinquant’anni dopo il fatto di cronaca che racconta il travaglio di un’epoca e di un Paese, fa venire i brividi. Per l’attualità di una società escludente e di una solitudine che continua ad attanagliare chi si azzarda semplicemente a “pensare” prima di “consumare“. Quel biglietto squarcia il velo su una realtà attualissima, per dirla con le parole messe in bocca da Goethe al giovane Werther, fatta di gente che “nella vita non si preoccupa d’altro che del cerimoniale, che per anni sognano e calcolano solamente come intrufolarsi a tavola un posto più su”.
Le idee forse in questi cinquant’anni non ce li siamo chiarite. Continuiamo ad escludere e a lasciare soli chi non sta al gioco del sistema. E puntualmente continuiamo a piangere ex post e a commemorare. 50 anni e un biglietto da rileggere. Ciao Luigi.
Salvatore D’Elia
Sono passati 50 anni dalla morte di Tenco e in tutti i salotti bene della televisione si fa a gara per ricordarlo e per cantare le sue canzoni. Personalmente ritengo stupido che ogni volta si tenti lo scoop cercando di negare il suo suicidio e di voler a tutti i costi trovare qualcuno che avrebbe avuto interesse ad ucciderlo:
direi che il primo segno di rispetto sia proprio quello accettare la sua volontà e il suo gesto estremo.
Che poi … a “Porta a Porta”… per onorare la sua memoria si chiami proprio Iva Zanicchi, che in qualche modo rappresenta uno dei motivi che causarono la sua decisione, mi pare un po’ di cattivo gusto.
Sono certa che, nel tentativo di rendergli omaggio, da qui al Festival di Sanremo… e oltre… si parlerà e si “sparlerà” ancora tanto, di Luigi Tenco e delle sue canzoni….
Credo che l’omaggio più bello sia quello che gli è stato reso da Franco Simone.
Questa è la canzone che ha scritto e cantato per lui:
https://www.youtube.com/watch?v=IlZ9Wkuf8fg&feature=share