Immaginate di essere una giornalista americana di true crime, con un matrimonio sull’orlo del divorzio, un quasi ex marito impossibilitato, per ragioni di salute, a sostenere la vostra famiglia economicamente ed immaginate, ancora, di avere ben quattro figli da mantenere. Immaginate, a questo punto, che vi venga offerto di iniziare a scrivere un romanzo su una lunga serie di scomparse ed assassinii di giovani ed avvenenti ragazze. Ed immaginate, infine, che dopo alcuni anni tutte quelle sparizioni e quegli omicidi vengano attribuiti ad un vostro caro amico. Perché è proprio questo che successe all’ignara Ann Rule col suo amico Ted Bundy.
Questa inverosimile storia- raccontata in prima persona da Ann in “Un estraneo al mio fianco“, pubblicato per la prima volta nel 1980- ha inizio nel 1971. Ann era volontaria presso la Crisis Clinic di Seattle, dove si recava ogni martedì notte per fornire un supporto per le persone che chiamavano in cerca di aiuto. Nello stesso turno, come studente lavoratore, c’era un ragazzo ventiquattrenne di bell’aspetto, iscritto all’ultimo anno della facoltà di psicologia ed aspirante studente di legge: Ted.
Tra Ted ed Ann si instaurò sin da subito una forte intesa, forse dettata dai comuni interessi per il diritto e la psicologia, forse- come Ann stessa più tardi avrebbe scritto nella prefazione al suo libro- per via di un legame più profondo (in alcune pagine, la scrittrice sostiene che il suo affetto per Ted fosse in qualche modo dettato da istinto di protezione nei confronti di suo fratello minore, all’incirca coetaneo di Ted e da poco morto suicida).
Nel Ted che Ann conobbe alla Crisis Clinic, non c’era nulla che lasciasse anche solo lontanamente presagire che sarebbe stato, anni dopo, condannato a morire sulla sedia elettrica: educato, colto, spiritoso ed intelligente, il giovane Ted appariva affascinante ed avviato verso un brillante futuro.
Eppure, lo stesso ragazzo che di notte tentava pazientemente di rassicurare aspiranti suicidi al telefono, che le portava tazze fumanti di caffè e le dava consigli per superare il periodo nero che Ann stava attraversando, sarebbe stato, in seguito, ritenuto responsabile di circa 30- 35 omicidi, tutti ai danni di giovani donne. Quello stesso ragazzo che sedeva accanto a lei, anni dopo, sarebbe stato definito “la precisa definizione del male“. Egli stesso avrebbe dichiarato di essere “il più gelido figlio di pu*tana che incontrerai mai”.
Ma allora chi era davvero Ted Bundy?
Nato al di fuori del matrimonio da una giovanissima Eleanor Louise Cowell nel ’46, per evitare di subire l’onta di essere bollato come “figlio illegittimo” Ted venne cresciuto dai nonni come se fosse figlio loro. Una parte di lui, però, seppe sempre che la “sorella maggiore” Louise era in realtà sua madre, tanto che la seguì quando lei si trasferì a Tacoma, nello stato di Washington, ed acquisì il cognome “Bundy” dal suo nuovo marito.
Ciò nonostante, continuava a sentirsi un Cowell, nutrendo un amore ed un’ammirazione sviscerati per il padre- nonno, che descrisse anche ad Ann come un uomo straordinario. Le indagini svolte anni dopo, però, evidenziarono un’altra verità, tracciando il profilo di un uomo violento e prepotente, mentre la nonna era soggiogata dalla depressione.
Ad ogni modo, pur avendo altri figli dal marito, Louise nutrì sempre una predilezione particolare per Ted, che cresceva studioso e bello, e già quand’era ragazzino iniziò a metter da parte del denaro per mandarlo all’università.
In questo senso, le aspettative della madre furono soddisfatte: il ragazzo svolse i propri studi con successo, e si mostrava brillante e sagace. Tuttavia, quel fascino innato che sempre lo aveva favorito in ambito accademico e nella vita sociale- Ted era impegnato anche politicamente- lo aiutò anche nel commettere efferati delitti.
Puntando, infatti, sul suo aspetto rassicurante ed avvenente (ma operando di volta in volta dei cambiamenti per non esser riconoscibile, dalla crescita della barba ad un finto neo sulla guancia), Ted adescò un gran numero di ragazze- per la maggior parte studentesse universitarie, e tutte corrispondenti ad un preciso canone estetico: attraenti, slanciate, con lunghi capelli pettinati quasi sempre con la riga in mezzo-, talvolta fingendosi un poliziotto, nella maggior parte dei casi mostrandosi con un arto ingessato e chiedendo aiuto per riporre alcune cose nel suo Maggiolino Wolskwagen (oggi in esposizione a Washington D. C., presso il National Museum of Crime and Punishment)- cui, per evitare di far scappare la malcapitata, aveva rimosso la maniglia dal lato passeggero. In un caso, si intrufolò nel dormitorio di una confraternita, dove uccise a bastonate due ragazze e ferì una terza.
Ted Bundy uccideva le sue vittime (solitamente, dopo averle portate in luoghi isolati) strangolandole oppure avvalendosi di coltelli o bastoni. In alcuni casi, arrivò anche alla decapitazione. In ogni caso, stuprava i cadaveri delle sfortunate ragazze, talvolta anche diversi giorni dopo la morte. Inoltre, in alcuni casi fece a pezzi i corpi delle sue vittime, distribuendoli nei boschi, affinché non fossero ritrovati.
Data anche la forte somiglianza di numerose sue vittime con la prima ragazza di cui si era innamorato, Stephanie Brooks, che a suo dire gli aveva spezzato il cuore, in molti sostengono che le uccisioni fossero una sorta di “punizione simbolica” nei confronti della stessa Stephanie. Molti altri, tuttavia, inclusa Ann al termine delle sue ricerche per la pubblicazione del libro, erano più propensi a vedere Ted come un sociopatico, un sadico “traeva piacere dal dolore altrui e dal senso di potere che provava verso le sue vittime, sia quando stavano per morire, che dopo”.
Questo confermerebbe l’algida freddezza con cui tornava alla sua vita quotidiana dopo i suoi crimini, nonché la sua voglia di stare al centro dell’attenzione anche nel corso dei numerosi processi cui fu sottoposto- in cui molte volte chiese di difendersi da sé, non ritenendo i propri difensori “all’altezza”.
Quale che sia la verità sul punto, è certo che Ted fosse un abilissimo manipolatore, capace fino all’ultimo di professarsi innocente e di non perdere il suo fascino con la reclusione: anzi, grazie alle sue spettacolari evasioni si accaparrò una ghermita schiera di fans.
Del resto, il rapporto con le donne– e, con la stessa Ann, che mantenne con lui una corrispondenza epistolare fin quasi alla morte del killer- era per Ted ineludibile: rimase a lungo con la stessa donna, pur non amandola, e riuscì finanche a sposarsi durante un processo con Carol, sua accanita sostenitrice, che gli diede anche una figlia.
La figura di Ted non ha perso, con la sua morte, il suo magnetismo: anzi, a lui sono ispirate moltissime opere, televisive, cinematografiche, musicali, letterarie. Ma l’attrazione per il macabro non può e non deve coprire la scia di sangue e di dolore che Ted Bundy ha tracciato nella sua vita.
Lidia Fontanella