Chi ha conoscenza del teatro moderno non può negare all’Europa una supremazia su quest’arte così complessa ed universale. Noi europei siamo stati in prima fila nella direzione e nella creazione di nuovi stili della drammaturgia, prima che questa venisse presa di mira da registi di avanguardia ambigui e parvenus. Non si conti poi la fissità nella messa in scena di questi ultimi anni…
Ciò avviene nel momento in cui si perde la memoria culturale. Senza delle basi non ci può essere innovazione. Se si aggiungono pretese senza talento e la voglia di voler condividere i frutti dell’arte in una camera dell’eco per intellettuali, siamo alla fine. E’ un brutto vizio quello di non saper parlare a tutti: nel nostro paese soprattutto è un problema di secoli.
Il teatro è potenza sulla scena, suono invasatore, visione, messa in moto, tecnica, psiche e corpo. Come nel rito, il novizio deve dare il meglio, deve dare tutto nell’istante, senza preparare troppo. Ma deve avere qualcuno in cui fidarsi per cercare il limite e riemergere. In questo senso, possiamo dire che la scena ha prodotto uomini molto più utili di Mejerchold, Artaud e Pirandello.
I più grandi ed innovativi uomini di teatro sono altri. In Italia ne potevamo vantare due. L’Inghilterra ha ancora il suo mostro sacro. Andiamo a scoprirli.
Dal Sud arriva con suono di musica dolente e mediterranea Eduardo de Filippo (1900-1984), con il suo teatro intimo. Lui nasce da un parto bellissimo dello spirito partenopeo, provato dalla guerra ma fedele a se stesso per la forza e la resilienza di secoli. Il suo metodo punta all’ironia come altro versante del dolore, per poi farlo esplodere in scene che si susseguono dentro stazioni di un presepe, pronto a sconsacrarsi. Ciò che rimane integro è il sentimento di un’anima, quella del protagonista, che però non si impone agli altri come nella tradizione a volte pacchiana di fine secolo. Eduardo è jazz: il suo ritmo lotta con lo scritto volutamente, in un gioco feroce di silenzi e battute, asincronie, getta l’attore a contatto con ritmi cui non è abituato. E’ in questo eterno <<complicarsi la vita>> che sta la sua grandezza ed elasticità. Non per niente, Orson Welles lo definì il più grande attore teatrale del secolo.
Carmelo Bene (1937-2002) è invece il Lucifero del palcoscenico. Colto, acuminato e al calore bianco. Lui non cura, non “dirige”: distrugge. I suoi Shakespeare sono negli annali per la resa orale della scena, la composizione dei suoni e dei volti ossessiva, parodica, anticlassica. Contro l’arte diventata statale, l’azione, l’apollineo, lui combatte contro il linguaggio stesso. Con lui si entra nella pura manìa (nel senso greco), nel governo della phonè e del puro suono, nella putrefazione. L’attore è macchina organica gestita per disprezzo e perfezionismo assieme. E questa macchina autofaga cerca il Vuoto in un’ascesi atea in cui tutto brucia, compreso l’attore. La ricerca di Bene va verso la libertà dalla dialettica, sintomo del potere, secondo le migliori tesi dei post-strutturalisti. L’unica danza che si può ballare è il ballo di San Vito, il puro invasamento contro la coscienza e l’Io che limita.
Ma se Bene è un pugno, Peter Brook (1925) è una mano aperta. Gentleman e bohdisattva, lui è Gabriele nella misura in cui il nostro Carmelo è Lucifero. Ma questo arcangelo conosce l’Oriente. E non c’è nessuno come lui che riesca a conciliare questi mondi: Shakespeare minimali ed evocativi, come quello storico del ’70 o il suo King Lear sono esperienze mistiche. Il corpo sente come antenna dell’anima recependo l’armonia di Gurdjieff e la crudeltà di Artaud in una nuova struttura. L’attenzione ai gesti e alla musica punta a creare estasi e rapimento pacifico di luce. La sua Carmen e il suo Mahabharata sono compendi di minimalismo, parola e suono collaborano come canali di una fontana in un giardino che si estende nel tempo. Un’opera magnanima che riflette sul Bene, il Male ed il Tempo. Ogni cosa è calcolata nella calma, concepita e partorita nel Silenzio, senza che ci sia di mezzo un meccanismo. E’ un fiume di luce.
Che li si guardi tutti e tre prima di intraprendere la via del teatro. Non si è grandi finché non si conosce l’arte in ogni sfumatura, scoprendo anche gli opposti.
Le “avanguardie”, se ancora esistono, dovranno imparare da loro. Solo chi è ricco può donare. Noi dobbiamo prendere ciò che piove da loro, filtrarlo attraverso le nostre esigenze.
Ogni grande popolo è mentalmente strabico: da un lato vede il passato e la sua eredità; dall’altro il mondo davanti a sé. Non esistono classici, non si possono imparare nemmeno: essi vivono finché li si ama e li si usa per creare il nuovo, fino a fonderli con noi stessi. Tutto così è all’interno, ma trasformato e rigenerato.
Antonio Canzoniere