Lo ha ricordato anche Mario Draghi al meeting di Rimini: quei 10 miliardi devono essere redistribuiti. Questa era la cifra che il governo aveva preventivato di ricavare dalla tassa sugli extra profitti delle aziende energetiche che producono o importano gas in Italia.
Inizialmente la tassazione doveva ammontare al 10% degli utili ma, con il decreto Aiuti-bis di giugno 2022, la percentuale è stata alzata al 25%. Il pagamento sarebbe dovuto avvenire in 2 tranche: la prima, da versare entro il 30 giugno, avrebbe dovuto corrispondere al 40% del totale; l’altra, da saldare entro fine novembre, avrebbe dovuto coprire il restante 60%, . Ad oggi, la somma versata è di 1,23 miliardi, una cifra di gran lunga inferiore alle aspettative del governo.
Come si è arrivati a questa situazione? Lo Stato ha fatto male i calcoli- secondo il Mef gli extra profitti ammonterebbero a 40 miliardi di euro- oppure ha introdotto una tassa eludibile?
Proviamo a fare chiarezza.
Come si calcola il costo dell’energia
Il 44% dell’energia italiana è prodotta tramite il gas, mentre il resto è diversificato tra eolico, idroelettrico, fotovoltaico e metaniere. Essendo così importante nella produzione, un aumento del prezzo del gas porta a rialzo il prezzo generale dell’elettricità. Ora, il prezzo del gas viene stabilito alla borsa Ttf di Amsterdam, dove vengono trattati i c.d. “futures”. Parliamo di contratti in cui la consegna del bene e il pagamento della cifra pattuita sono rimandati ad una data futura prestabilita. Ciò significa che il contratto è stipulato in base alle previsioni dei prossimi andamenti di mercato del gas. Solitamente si tratta di futures a 3 mesi, ma ne esistono anche di più a lungo termine. In un periodo di incertezza come il nostro ( basti pensare alla chiusura del Nord Stream 1), il prezzo schizza alle stelle perché non c’è alcuna certezza su quanto gas avremmo a disposizione nel prossimo periodo. In altre parole, il prezzo del gas dipende in gran parte dalla speculazione degli operatori finanziari.
E il prezzo che paghiamo in Italia?
Il gas utilizzato oggi dalle aziende elettriche è stato acquistato precedentemente, attraverso dei contratti a lungo termine nei quali il prezzo era molto più basso di quello attuale. E se a ciò aggiungiamo che l’authority italiana per l’energia (Arera) stabilisce il prezzo finale dell’elettricità in base alla quotazione media del trimestre precedente presso il Ttf, e questa si sta alzando costantemente da febbraio a questa parte, si capisce perché gli extra profitti sono aumentati così a dismisura.
Quanto hanno guadagnato le aziende energetiche?
Dal momento che è molto difficile trovare il bandolo di quella matassa che è il mercato del gas, il governo ha cercato di trovare una strada più semplice: il differenziale IVA. Si tratta di calcolare la differenza tra quanto hanno guadagnato le aziende nel periodo che va dal 1 ottobre 2021 al 30 aprile 2022 e lo stesso periodo dell’anno precedente. Il saldo tra queste cifre corrisponde, secondo il Mef, all’extra profitto ricavato dalle imprese.
Consideriamo che Enel, nel primo trimestre 2022, ha quasi raddoppiato il suo fatturato rispetto allo stesso periodo del 2021, passando da 18 a 34 miliardi. I suoi utili netti invece, sono passati da 2,1 a 2,3 miliardi. Eni, a fronte di un aumento del fatturato di quasi 18 miliardi rispetto al primo trimestre 2021, ha avuto un aumento notevole degli utili: da 1,3 a 5,2 miliardi. Anche Edison, altro colosso energetico, ha visto salire il suo fatturato fino a 7,2 miliardi nel primo trimestre 2022.
A quanto corrisponde realmente la tassa sugli extra profitti?
Fa strano vedere le cifre messe in bilancio dai grandi colossi energetici per pagare la tassa sugli extra profitti: Eni ha stimato di dover versare 550 milioni, Enel 100 ed Edison 78. Come è possibile raggiungere la cifra di 10 miliardi se insieme i 3 colossi energetici non arrivano neanche ad uno?
Secondo il Mef, la tassa avrebbe dovuto coinvolgere circa 11 mila aziende. Di queste, il 98% sono aziende medio piccole che avrebbero dovuto coprire circa la metà di quei 10 miliardi preventivati. Il resto sarebbe dovuto ricadere sulle spalle delle grandi aziende come quelle citate precedentemente.
Ad ogni modo, dei 4 miliardi che sarebbero dovuti arrivare entro il 30 giugno, poco più di 1 miliardo è arrivato a destinazione. Come è potuto accadere?
La verità è che molte aziende hanno deciso di non pagare, adducendo almeno tre tesi alle loro ragioni.
Il differenziale IVA e la tassa sugli extra profitti
In primis, sono state criticate le modalità di calcolo degli extra profitti, in quanto il differenziale IVA (la variazione della cifra imponibile da un anno all’altro) è influenzato da diversi fattori che non riguardano solamente il costo delle fonti energetiche, come, per esempio, un banale aumento della quota di mercato. Questioni di diritto tributario che vanno lasciate agli esperti del settore.
Il periodo del lockdown
In secundis, è stato ricordato come il periodo preso in considerazione per calcolare il differenziale (ottobre 2020-aprile 2021) sia stato anche quello del lockdown, in cui quindi c’è stata una riduzione dei consumi. Di conseguenza, un aumento del fatturato ci sarebbe stato indipendentemente dall’aumento del prezzo dell’energia. A ciò si potrebbe replicare che il prezzo del gas è aumentato di circa 10 volte rispetto all’anno precedente. Insomma, se è vero che ci sarebbe stato comunque un aumento dei consumi, pare quasi ininfluente rispetto alla variabile del prezzo del gas.
L’incostituzionalità della tassa sugli extra profitti.
L’ultimo argomento a sostegno del mancato pagamento è quello costituzionale. Diverse aziende infatti sono inadempienti perché presuppongono l’incostituzionalità della tassa. In questo senso, il precedente della Robin tax ha influito sulle loro valutazioni. Introdotta nel 2008, la norma prevedeva una tassa sugli extra profitti derivanti dagli aumenti del prezzo del petrolio avvenuti quell’anno ed è rimasta in vigore fino al 2015, quando è stata dichiarata incostituzionale. Seppur con qualche differenza, la manovra finanziaria sostenuta dall’allora ministro del tesoro Giulio Tremonti mirava agli stessi obiettivi di questa tassa.
Anche in questo caso evitiamo di addentrarci in trame giuridiche da cui sarebbe difficile districarsi. Sottolineiamo solo come al meeting di Rimini Mario Draghi non sembrasse affatto spaventato dalla possibile incostituzionalità della norma mentre sollecitava le aziende a pagare quanto dovuto.
Aldilà di ciò, rimangono i numeri, e parlano chiaro: 40 miliardi di extra profitti, che non possono ammuffire nelle grandi tasche delle aziende energetiche. Una redistribuzione di questa ricchezza è doverosa,e necessaria, in nome della tutela di tutti quei cittadini e quelle imprese che sono messi alle corde dal rincaro dell’energia.