di Michele Marsonet
E’ sorprendente constatare come la Repubblica Popolare Cinese sia riuscita a imporre con successo alla comunità internazionale lo slogan “una sola Cina”. Secondo tale principio non vi possono essere altri Stati che possano essere definiti “cinesi”. Ciò vale soprattutto per Taiwan, l’isola che si autodefinisce “Repubblica di Cina”, e che rifiuta di essere assimilata al regime comunista al potere a Pechino dal lontano 1949.
Con un’abile operazione diplomatica protrattasi per decenni, la Cina comunista è riuscita a far espellere Taiwan da tutte le principali organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite per finire con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma non basta. A causa dell’accettazione del succitato slogan, chi vuole avere rapporti diplomatici con Pechino è costretto, ipso facto, a rompere le relazioni con Taipei, anche se ciò non impedisce alla maggior parte delle nazioni di continuare a intrattenere con Taiwan intensi rapporti economici.
L’anno passato Pechino ha annunciato trionfalmente che altri due piccoli Stati dell’Oceano Pacifico, Kiribati e Isole Salomone, hanno aderito al principio dell’unica Cina rompendo contestualmente le reazioni con Taipei e portando così soltanto a 15 il numero delle nazioni che riconoscono ufficialmente Taiwan. La vicenda è ovviamente spiegabile grazie allo status di grande potenza che la Repubblica Popolare ha acquisito e alle pressioni – non solo economiche – che è in grado di compiere. Ma, ovviamente, ciò non significa che essa sia anche giustificabile dal punto di vista del diritto internazionale.
Si noti, tanto per cominciare, che la Cina comunista, nella quale prevale largamente l’etnia han, include vastissimi territori che cinesi non sono affatto. Non sono han i tibetani, occupati dall’esercito di Mao Zedong nel 1949-50. Eppure, nel corso di un mio viaggio a Pechino, una collega della locale università replicò alle mie rimostranze sul Tibet rispondendo “Quella è roba nostra!”. E ancor meno han e cinesi sono gli uiguri, popolazione musulmana maggioritaria nello Xinjiang e sottoposta a repressioni brutali proprio come i tibetani. In entrambi i casi il paravento è religioso. Pechino impone l’ateismo di Stato, al quale i tibetani buddhisti e gli uiguri musulmani rifiutano di piegarsi finendo spesso nei cosiddetti “campi di rieducazione”.
Ma non è ancora finita. Sono infatti han e cinesi in grande maggioranza gli abitanti di Hong Kong e di Taiwan che, incuranti degli appelli nazionalisti di Xi Jinping, vorrebbero vivere in un sistema politico e istituzionale che garantisca le libertà di base e lo Stato di diritto. Pertanto lo slogan dell’unica Cina è solo retorica, dietro la quale si cela un sogno di egemonia dapprima asiatica, e ora addirittura mondiale. Senza scordare che, per quanto riguarda Taiwan, la Cina ha pure interessi economici notevoli da sfruttare. Nell’isola risultano infatti presenti numerose aziende strategiche come la TMSC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), che sono le migliori produttrici mondiali di microchip di alto livello, necessari per i missili balistici e gli armamenti più sofisticati.
Il problema è che Taiwan dista poco più di 200 kilometri dalla costa della Cina continentale, e di conseguenza l’amministrazione Trump (e in seguito anche quella Biden), temendo conseguenze in caso di conflitto armato, ha chiesto alla TMSC di aprire una fabbrica in Arizona. Segno, questo, che l’attenzione americana è ora molto alta dopo un lungo periodo in cui la minaccia cinese era ampiamente sottovalutata. Resta comunque l’incredibilità di una situazione che impedisce a qualsiasi nazione di riconoscere ufficialmente Taiwan a causa del veto cinese. Finora questo diktat ha avuto successo anche a causa della debolezza di precedenti amministrazioni Usa e della UE. Non è detto, però, che continui ad essere vincente in eterno.
Se si visita il vecchio centro storico di Pechino percorrendo gli “hutong”, stretti e bellissimi vicoli rimasti intatti dopo lo scempio edilizio degli ultimi decenni, è possibile trovare molti negozietti – per lo più gestiti da giovani – che vendono oggetti vintage. Raramente originali, in maggioranza riproduzioni fedeli a uso e consumo dei turisti. Molto frequenti quaderni scolastici, tabacchiere e scatole di fiammiferi con soldati, operai e contadini vestiti secondo la foggia maoista che gridano – con aria ispirata – “Riprendiamoci Taiwan!”. In inglese, naturalmente, poiché la stragrande maggioranza dei turisti il cinese non lo capisce.
Le ultime elezioni politiche a Taiwan hanno segnato una nettissima vittoria del partito indipendentista capeggiato dalla attuale presidente Tsai Ing-wen, prima donna a ricoprire tale incarico. Tsai, che era al potere dal 2016, è riuscita ad ampliare parecchio i consensi superando il 57% dei voti, mentre il suo partito, il “Democratic Progressive Party” (DPP), ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.
La vittoria degli indipendentisti è importante non solo per il destino dell’isola, ma anche perché è stata conseguita a dispetto delle pesanti pressioni del governo di Pechino. Xi Jinping ha cercato in ogni modo di appoggiare invece il partito filo-cinese che favorisce rapporti più stretti con la Repubblica Popolare. Quest’ultima considera Taiwan soltanto una “provincia ribelle”.
Guardando la carta geografica vien fatto di pensare che Pechino ha ragione. Taiwan, oppure Formosa come si diceva un tempo, è un’isola di appena 36.000 chilometri quadrati con 24 milioni scarsi di abitanti. Non solo. E’ collocata a brevissima distanza dalla costa del continente nel Mar Cinese Meridionale. La sua denominazione ufficiale è “Repubblica di Cina”, e si trova a un tiro di schioppo dalla Repubblica Popolare che, di abitanti, ne conta un miliardo e 400 milioni. Eppure la storia ha fatto sì che vi siano, per l’appunto, due Cine. Quella grande, che si definisce “comunista”, è diventata col tempo la seconda superpotenza mondiale, in grado di contendere agli Stati Uniti il primato in molti campi. La seconda, enormemente più piccola, ha continuato la sua vita indipendente diventando una delle celebri “tigri asiatiche” come Corea del Sud, Singapore, Malesia e Vietnam.
Il fatto è che Taiwan dipende in modo totale, per quanto riguarda la sua sicurezza, dallo scudo americano. In tempi ormai lontani gli Usa consentirono (a malincuore) che il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU venisse tolto a Taipei e attribuito a Pechino, chiarendo però che l’impegno americano a difendere l’isola in qualsiasi circostanza restava immutato. E così è stato. Si sono verificati scontri armati nel sottile stretto che divide i due Paesi, ma la Repubblica Popolare non ha mai superato la soglia critica, limitandosi a proclamare con costanza la necessità della riunificazione.
L’isola divenne, nel 1949, il rifugio dei nazionalisti del Kuomintang, comandati da Chiang Kai-shek e sconfitti nella guerra civile dai comunisti di Mao. Che la Repubblica Popolare pratichi una politica espansionistica è ormai un fatto riconosciuto da tutti. Agli occhi della sua leadership Taiwan – come Hong Kong, nel frattempo “normalizzata” – è una “ferita aperta” da risanare ad ogni costo. I due Stati commerciano intensamente e si scambiano pure turisti in numero crescente. Si dà tuttavia il caso che la maggioranza dei taiwanesi sia favorevole alla normalizzazione dei rapporti e, al contempo, assolutamente contraria all’unificazione. La popolazione è molto occidentalizzata, e la “Repubblica di Cina” è parte integrante (e fedele) del sistema di alleanze Usa in Estremo Oriente.
Al di là della cronaca corrente è comunque opportuno porre una domanda di fondo: è proprio vero che l’isola fa parte della Cina a tutti gli effetti? A prima vista parrebbe di sì, ma la realtà è più complessa di quanto sembra. Già, perché la popolazione autoctona dell’isola non è affatto cinese. Gli “aborigeni” di Taiwan, ancora presenti per quanto in numero ridotto, parlano una lingua del gruppo austronesiano, e ciò significa che sono imparentati con malesi, filippini e indonesiani. La grande colonizzazione cinese avvenne soltanto nel XVII secolo. Mette pure conto notare che la cultura e la lingua autoctone, represse per secoli, vengono ora rivalutate dal governo di Taipei proprio in funzione anti-cinese.
Il quadro è, insomma, piuttosto complicato. Pare ovvio pensare che i leader di Pechino non si fermeranno certo di fronte a considerazioni di questo tipo. Continueranno a coltivare il progetto della “Grande Cina” alla quale, a loro avviso, appartiene anche il Tibet (che cinese non è affatto). E neppure Hanoi dorme sonni tranquilli, giacché il Vietnam è stato per molto tempo la provincia meridionale dell’ex Impero Celeste. D’altro canto è evidente che la piccola Taiwan ha bisogno di garanzie internazionali – soprattutto militari – per conservare la propria indipendenza politica e culturale. Il Giappone può fornirne qualcuna, ma ancora una volta il compito primario spetta agli Stati Uniti. Da questo punto di vista, dopo la politica estera incerta praticata da Barack Obama, Donald Trump ha fornito ampie garanzie al riguardo, ribadendo che gli Stati Uniti intendono continuare a svolgere nel Pacifico il ruolo di superpotenza che detengono sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. In seguito anche Joe Biden ha seguito questa strada.
C’è tuttavia un paradosso di cui occorre tener conto. Dopo la morte di Mao e la svolta economica di Deng Xiaoping, anche la Repubblica Popolare ha conosciuto uno sviluppo impetuoso che l’ha condotta, per l’appunto, al secondo posto nella classifica economica, commerciale e finanziaria mondiale. Prima sottotraccia e poi in modo aperto, sono cresciuti in maniera esponenziale anche gli scambi con Taiwan che ora dipende in larga misura – come tanti altri Paesi – dai rapporti economici con Pechino. Di qui l’intenzione degli ex arcinemici del Kuomintang di “normalizzare” la situazione riavvicinandosi alla Repubblica Popolare.
Destando una certa sorpresa tra gli osservatori internazionali, nelle elezioni amministrative che si sono tenute quest’anno a Taiwan gli indipendentisti del “Partito Progressista Democratico” (PPD) dell’attuale presidente Tsai Ing-wen hanno subito una sconfitta. Il nuovo sindaco di Taipei, il 43enne Wayne Chiang Wan-an, appartiene infatti al “Kuomintang”, partito che negli ultimi anni si è contrapposto al PPD sul fondamentale problema dei rapporti con Pechino. Le sorprese, tuttavia, non finiscono qui. Il “Kuomintang” è l’erede diretto – e porta lo stesso nome – del partito nazionalista che, sotto la guida del Generalissimo Chiang Kai-hek, governò la Cina dal 1928 al 1949. Fu poi sconfitto dall’esercito di Mao Zedong e, dopo la presa di potere dei comunisti di Mao, i suoi esponenti e le sue truppe si rifugiarono per l’appunto a Taiwan, mantenendo la vecchia denominazione di “Repubblica di Cina” (contrapposta alla “Repubblica Popolare Cinese” fondata da Mao).
Oltre a questo, il nuovo sindaco di Taipei è pure pronipote di Chiang Kai-shek. Il problema è che il nuovo “Kuomintang”, il quale in teoria e per ovvie ragioni storiche dovrebbe essere il più deciso fautore dell’indipendenza dell’isola, negli ultimi anni ha invece adottato un approccio più morbido, sostenendo la necessità di non inasprire troppo le relazioni con il potente vicino, soprattutto a causa degli intensi rapporti economici tra i due Paesi. Come se non bastasse, il “Kuomintang” ha vinto anche in altre città dell’isola, battendo spesso di larga misura il “Partito Progressista Democratico” il quale, comunque, mantiene un’ampia maggioranza nel Parlamento nazionale. Come conseguenza Tsai Ing-wen ha subito lasciato la direzione del Partito. Resta in ogni caso presidente della Repubblica (il suo mandato scade nel 2024).
Si potrebbe osservare che, trattandosi di elezioni locali, alla vicenda non si dovrebbe attribuire eccessiva importanza. Senza contare che, per la leadership cinese, tutte le elezioni a Taiwan non hanno alcun valore legale, giacché l’isola è considerata parte integrante della Repubblica Popolare. In ogni caso l’esito della tornata amministrativa pone parecchi problemi tanto a Taipei quanto agli Stati Uniti, che hanno promesso di difenderla in caso di invasione da parte della Repubblica Popolare. Se i taiwanesi – come sembra – non sono compatti nel rivendicare l’indipendenza, e se, addirittura, si manifestasse una “quinta colonna” favorevole a Pechino nell’isola, tale difesa diventerebbe assai problematica.
Xi Jinping, già impegnato nella lotta interna per imporre le riforme promesse, dovrà aggiungere alla sua agenda i problemi posti dai cinesi fuori confine che non accettano la supremazia della Repubblica Popolare. Una bella gatta da pelare per Joe Biden, se la compattezza della popolazione taiwanese venisse meno. A quel punto Xi Jinping avrebbe buon gioco nel dimostrare che l’isola appartiene alla Cina senza “se” e senza “ma”, ponendo Washington in una situazione ancora più difficile di quella attuale.