Le scavatrici (Fandango, 2022) di Taina Tervonen racconta una storia che non vorremmo leggere, ma che abbiamo bisogno di leggere. Quella di chi in Bosnia-Erzegovina ancora aspetta risposte sui propri cari scomparsi tra il 1992 e il 1995, portati via e massacrati per essere musulmani. Quella di chi, in Serbia, nega il genocidio e di chi, invece, convive a fatica col senso di colpa per ciò che ha fatto il proprio popolo. E quella di chi lotta quotidianamente, basandosi sulle più recenti tecniche forensi, per restituire un’identità ai corpi che ogni anno riemergono dalle fosse comuni.
Il libro di Taina Tervonen mi ha messo a dura prova. Da scrittrice, ho provato invidia: ha una prosa così nitida che riesce a trasportare immediatamente chi legge sugli scenari del massacro dove la vita continua. E così poetica da riuscire a costruire la bellezza della vita dentro l’orrore della morte, rendendo giustizia ai tecnici forensi, alle vittime e ai familiari. Da lettrice, sono rimasta catturata in un mondo narrativo vividissimo. Fatto di vite che si intrecciano in storie che la Storia ha spazzato via e che, tenaci, sono germogliate di nuovo. Da cittadina europea, l’ho sentito come un pugno nello stomaco. Volevo sapere e non volevo continuare a leggere, perché avrei scoperto orrore che si sommava all’orrore.
Sapevo di Srebrenica a causa di una lettura recente, ma un nome come quello di Trnopolje mi era sconosciuto. Ho scoperto che si tratta di un campo di concentramento che ospitò tra maggio e novembre 1992 tra 4000 e 7000 bosniaci e croati. Inoltre, più di 30000 prigionieri vi transitarono durante deportazioni di massa che non risparmiarono anziani e bambini. Né avevo mai sentito i nomi di Omarska e Keratem, campi di concentramento noti per essere stati ancora peggiori. Men che meno sapevo che in Bosnia-Erzegovina si scava ancora, perché ancora migliaia sono i dispersi. E che sono a decine le fosse comuni che potrebbero non essere state ancora scoperte.
Chi sono le “scavatrici”
Il racconto di Taina Tervonen prende le mosse proprio da questa consapevolezza. E dal desiderio di scoprire il lavoro e le vite di chi cerca di riunire le famiglie spezzate dalla brutalità delle pulizia etnica. Questo è ciò che fanno le “scavatrici” Senem Škulj e Darija Vujinović.
La prima, antropologa forense, calandosi nelle fosse comuni appena scoperte, repertando, catalogando, estraendo le salme. E poi lavorando instancabilmente per restituire dignità a corpi imbalsamati nella terra, offesi, sparsi come immondizia tra fosse comuni a decine di chilometri di distanza. Un lavoro che è fatica fisica e morale, ma anche studio incessante per far fronte a mille difficoltà. Come evitare, con le scarse risorse a disposizione, la decomposizione dei corpi estratti dalle fosse in attesa dell’identificazione. Come risparmiare alle famiglie riunite alle celebrazioni pubbliche per le sepolture che all’orrore si aggiunga l’odore, il tanfo orrido e oltraggioso della putrefazione.
La seconda, esperta nelle tecniche dell’identificazione attraverso il DNA, viaggiando attraverso la Bosnia-Erzegovina, la Serbia e la Croazia per rintracciare i parenti delle vittime. Quattro gocce di sangue, non serve di più. Ma esse si trovano intessute in un reticolo di storie in cui bisogna immergersi e scavare. Rispondendo così al bisogno di chi aspetta ancora una risposta di parlare, qualche volta anche di gridare, e di essere ascoltato.
Riparare la dignità nell’essere umano
Vita e morte, vivi e morti: parole che tornano ossessivamente nel testo, all’inizio in un modo che quasi fa smarrire chi legge. Si tratta dello stesso smarrimento, Taina Tervonen lo ammette, che ha provato l’autrice quando, nel 2010, cominciava il suo viaggio seguendo le “scavatrici”. Tale smarrimento deriva dalla tendenza a pensare vita e morte come domini separati che solo chi non ha perso qualcuno senza più ritrovarlo può permettersi. Chi ha un disperso in famiglia, invece, convive con un’assenza che non riesce a concretizzarsi in un addio definitivo. Proprio per questo così tante persone in Bosnia-Erzegovina, in Croazia e in Europa ancora oggi vivono con speranza la scoperta di un’altra fossa comune. Nell’orrore che essa rappresenta, è comunque racchiusa la possibilità infinitesima di scoprire ciò che è accaduto ai propri cari e finalmente trovare pace.
Rimediare all’orrore di Trnopolje, Omarska e Keratem non è possibile. Ciò che è possibile fare è provare a ricostruire ciò che massacri del genere distruggono nell’umanità:
i morti e i vivi non sono due mondi separati, appartengono alla stessa cerchia: quella degli esseri umani. Senem e Darija ricuciono pazientemente il legame che è stato rotto spogliando i morti della loro dignità. E rifiutando ai vivi i saluti d’addio che potrebbero permettere loro di continuare a vivere. Fino a che ci saranno persone che faranno questo lavoro, che ripareranno ciò che è stato rotto e calpestato, ci sarà speranza. Qualcosa dell’umanità di noi tutti sarà salvato. E preservato.
Da Taina Tervonen qualcosa su cui riflettere
A rendere tanto potente il libro di Taina Tervonen, del resto, non è solo ciò che esso fa emergere del passato. Certo, gli avvenimenti del passato recente collegati al lavoro delle “scavatrici” sono terrificanti. Ma ancor più spaventoso è il contesto di omertà e negazionismo ancora diffuso soprattutto in Serbia, dove si fatica a riconoscere l’avvenuto crimine. Un’osservazione di Darija, in particolare, raggela l’autrice durante una conversazione:
Qui i giovani sentono una sola versione della storia. Tutti quelli nati dopo la guerra crescono in un paese diviso. Anche a scuola gli insegnano versioni diverse della storia. Per i musulmani gli eroi sono loro. Per i serbi sono i serbi e per i croati sono i croati. Nessuno vuole essere il perdente in questa guerra. E i giovani assorbono tutto questo. Rimango senza parole quando li ascolto. Come una malattia, ecco cos’è. Sono contaminati. […] Se continua di questo passo, tra dieci o vent’anni ci sarà un’altra guerra.
Non si può dare torto a Taina Tervonen per il suo sgomento: l’eventualità è agghiacciante. Come si può scongiurarla? Difficile dirlo. Un suggerimento, forse un po’ utopistico e (spero mi si perdonerà) un po’ troppo femminista, viene da una delle ultime pagine del libro. E cioè: seguendo l’esempio delle donne raccontate da Taina Tervonen in Bosnia-Erzegovina, che lottano, resistono e praticano i valori di ospitalità, tenerezza e cura.
Penso a tutte le sigarette, a tutti i caffè, a tutti i bicchieri di rakija, di birra o di liquore alle ciliegie che ho condiviso con le donne di questo paese da quando vengo qui. Penso a queste sopravvissute che continuano a fare da mangiare, a occuparsi dei bambini che sono sopravvissuti e a quelli che hanno fatto nascere in seguito. A quelle che lavorano calze di lana a maglia, che fumano e bevono, che ingurgitano ansiolitici per scacciare gli incubi e antidepressivi per allontanare i ricordi troppo duri. A quelle che continuano a prendersi cura di un marito rovinato dalla guerra, che sopportano l’assenza degli scomparsi, che aspettano un tempo decoroso per risposarsi. […] Donne potenti che raccontano ai bambini del padre che non c’è più, del cugino scomparso. Che raccontano perché i piccoli devono sapere, che tacciono il peggio per proteggerli. Che si chiedono se occorra dirlo o non dirlo, come sapere quel che è bene.