Sveva Basirah Balzini è una femminista italiana convertita all’Islam. La sua storia, le sue esperienze, l’hanno portata ad essere ciò che ora è: una donna che vive la religione come un arricchimento e non una rinuncia. La sua interpretazione del Corano, influenzata dal femminismo islamico, di cui è portavoce, svela agli occhi degli interlocutori più diffidenti una religione del tutto nuova.
Creatrice del progetto “Sono l’unica mia”, Sveva Basirah è attivista e sostenitrice dei diritti LGBT.
Femminista, attivista, musulmana, queer, vegana, antispecista. Ad alcuni potresti sembrare l’incarnazione del diavolo. Quale percorso ti ha portata ad essere ciò che sei?
Sicuramente ho una predisposizione innata per tutto ciò che riguarda il sociale e la politica. Ho maturato precocemente questi interessi leggendo e spulciando giornali fin dalle elementari. A 16 anni ho iniziato a praticare il volontariato presso la Comunità di Sant’Egidio. Mi occupavo di bambini, tutti appartenenti a famiglie musulmane. È in quel contesto che ho conosciuto l’Islam per la prima volta.
Contemporaneamente mi sono imbattuta in pagine Facebook femministe. Una in particolare è diventata il mio spirito guida, “Abbatto i muri”. Mi sono proposta come femminista musulmana e loro mi hanno accolta. Da allora è iniziata una splendida collaborazione trasformatasi poi in amicizia.
Queste esperienze hanno contribuito a rendermi ciò che sono ora. Ma l’impulso decisivo è scaturito reagendo ad una relazione violenta. Oggi posso dire di essere l’esatto contrario di come il mio ex avrebbe voluto che io fossi. Con le mie forze sono riuscita ad oppormi a tutta la sua tossicità. E paradossalmente, grazie a lui, grazie all’essere stata a contatto con la violenza sotto molteplici forme, sono riuscita a demolire tutto il marcio che avevo interiorizzato, ad applicare la teoria femminista alla mia vita.
Sveva Basirah, credo che alla maggior parte dei lettori il “femminismo islamico” suoni un po’ male. Chiariamo questo aspetto?
Sì, il femminismo islamico suona male, ma c’è un motivo. L’islam viene rappresentato dai mass media come il male del mondo, come una religione violenta appartenente a comunità altrettanto violente. Oltretutto è assai frequente che il tema venga trattato con un certo tipo di esotismo, di orientalismo. Purtroppo, la disinformazione dilaga dai tempi del colonialismo. È un modus operandi che abbiamo sempre adottato quello di sminuire e ridipingere l’immagine dei popoli assoggettati o combattuti.
Purtroppo, questa ostinazione a voler percepire l’Islam come una barbarie rende molto complicato il collegamento della religione col femminismo. D’altronde il femminismo può risultare una tematica nebulosa per le persone che non hanno avuto modo di conoscerlo approfonditamente.
È una materia ancora troppo misconosciuta. E quando viene accostato all’Islam sembra crei dei cortocircuiti logici in alcune persone. Probabilmente perché non sono consapevoli delle molteplici sfaccettature che sia l’Islam che il movimento femminista possono avere.
Il femminismo islamico è un movimento di decolonizzazione. Decolonizzazione dall’occidente, dall’orientalismo e dal patriarcato. Esso propone l’Islam in un altro modo. Lo mette sotto un’altra luce, in modo tale che diventi uno strumento di liberazione e di elevazione spirituale, lontano dal bigottismo.
Come è avvenuta la tua conversione?
Come affermato in precedenza, mi sono avvicinata all’Islam per interesse personale, tramite i bambini della comunità. Sin da subito ho notato quanto questa religione si discostasse dal cattolicesimo, che io non ho mai abbracciato.
La prima volta che ho aperto il Corano mi sono messa a piangere. È un testo complicato che allora non sapevo leggere. Mi sono convertita il 28 agosto 2015. Avevo da poco iniziato una relazione con un ragazzo musulmano e la sua presenza mi aveva fatta sentire legittimata a convertirmi.
La scelta di abbracciare una visione moderata e inclusiva della religione islamica quanto è stata influenzata dalla cultura occidentale a cui appartieni?
Un piccolo appunto sulla parola moderata.
Il mio Islam non è moderato. Nell’immaginario collettivo, si intende moderata una visione dell’Islam che vede gli angoli del testo religioso smussati. Oppure che vede un musulmano applicare meno precetti. Quando si usa l’espressione “visione moderata” si intende, consapevolmente o inconsapevolmente, che il musulmano non stia applicando i precetti più “barbari”.
In verità, dietro questa parola, c’è misconcezione, pregiudizio e una visione orientalista dell’Islam. È come se si celasse la convinzione che l’Islam sia necessariamente legato al concetto di violenza.La mia religione quindi non è moderata. Anzi, mi sento radicale in tutto. Ovviamente è difficile da credere pensando ad una persona come me, fuori dagli schemi. Ma ti assicuro che seguo fedelmente la mia religione, per come sono convinta che sia.
La mia visione teologica è stata influenzata anche dalla cultura occidentale. Ma non si sarebbe potuta manifestare in questo modo se non avessi subito l’influenza delle femministe islamiche e musulmane di tutto il mondo. Donne che tutt’ora sono i pilastri di questo movimento.
Mentre il femminismo occidentale, per me, si è rivelato un’arma a doppio taglio. Se da un lato mi ha fornito gli strumenti necessari per poter vivere la vita in maniera autentica, coerente e radicale; dall’altro c’è da dire che molto spesso alcune frange di femminismo mi hanno ostacolata dal credere. Anche in questo caso c’è l’assoluto preconcetto che una persona di fede non possa essere femminista. La religione viene erroneamente interpretata come un elemento nocivo per la libertà di ogni individuo.
Ma la religione è uno strumento di liberazione. E questo concetto per noi non dovrebbe essere nuovo. In Italia lo abbiamo già ampiamente vissuto col cristianesimo, ma sembra quasi che, al giorno d’oggi, ci sia passato di mente.
Così come ci è passato di mente chi sia il fondatore di Arcigay (n.d.r. Marco Bisceglia, prete e attivista per la causa LGBT), le femministe cristiane e gli anarchici cristiani. Coloro che, dando via ai movimenti, hanno contribuito a modificare preconcetti culturali con tanta fatica.
Sveva Basirah, hai fondato il movimento “Sono l’unica mia” a sostegno delle donne vittime di violenza. Tu stessa sei stata una vittima e ne porti ancora le cicatrici, dove hai trovato la forza di reagire?
Il movimento “Sono l’unica mia” non è nato a sostegno delle vittime di violenza. Inizialmente era un diario di una femminista musulmana di soli sedici anni. Successivamente, dopo essere diventata io stessa una vittima e dopo aver conosciuto compagne di lotta, il progetto si è evoluto ingrandendosi.
Uno dei pilastri di SLUM è quello del safe space – spazio sicuro. Il nostro obiettivo è aiutare e proteggere, nel modo più efficace possibile, tutte le vittime di violenza che ci cercano per avere sostegno.
Dove ho trovato la forza di reagire? Il femminismo mi ha dato gli strumenti giusti. Grazie ad essi ho potuto comprendere la realtà che stavo vivendo. Ho potuto distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. Ma anche la religione ha avuto il suo peso. La concezione di Islam femminista che ho abbracciato non poteva tollerare un uomo violento al mio fianco.
“Sono l’unica mia” sostiene anche la comunità LGBT, come si concilia questa tua missione con la religione? Ci sono stati dei conflitti a riguardo?
Sì, il progetto sostiene anche la comunità LGBT.
Ma come dicevo, il mio approccio alla religione cambia completamente le carte in tavola.
La mia visione dell’Islam contempla anche le interpretazioni non omolesbobitransfobiche del Corano e della Sunna. Di conseguenza, è per me normalissimo, anche dal punto di vista teologico, che la comunità LGBT sia ben accetta.Ci sono stati dei conflitti, certo. Ma come ci sono stati dei conflitti col femminismo islamico in generale. Non tutti sono pronti a tollerare una visione femminista dell’Islam, né occidentali né musulmani. Si pensi che tutt’ora per molti è inaccettabile il femminismo stesso. Figurarsi quello religioso…
Qual è la tua posizione riguardo il velo, l’hijab? Ritieni che sia una pratica religiosa o un simbolo d’identità culturale?
Sostengo che il velo sia entrambe le cose.
Partiamo da un assunto: qualsiasi cosa può essere una pratica islamica. Anche l’atto più anti-islamico del mondo, laddove trovi giustificazione nella sua adozione dalla comunità musulmana, diviene una pratica. Ti faccio un esempio.
Le mutilazioni genitali femminili io le definisco assolutamente anti-islamiche. Le persone musulmane di talune comunità tuttavia le considerano parte dell’Islam, travisando e strumentalizzando le fonti minoritarie. Per inciso, anche alcune comunità cristiane adottano questa pratica con motivazioni diverse.
Ad ogni modo, ciò non significa che la corretta interpretazione dell’Islam debba necessariamente risolversi in questo. La dimostrazione sta nel fatto che ad oggi, sia i governi che gli imam stanno sempre più affermando che queste pratiche siano immorali e non etiche.
Tornando al velo, per come intendo io l’Islam, non vi è alcun obbligo. Il velo è un segno distintivo che appartiene al suo contesto. La contestualizzazione è fondamentale. Indossare il velo nel suo contesto originario significa dichiararsi musulmana. Ciò succede ancora oggi. Il problema sta nel fatto che il velo è divenuto un terreno di battaglia politica senza tener conto di tutte le sue sfaccettature simboliche.
Arianna Folgarelli