L’opera della scrittrice e filosofa statunitense Susan Sontag è un riferimento ancora imprescindibile rispetto al problema di come «noi» ci poniamo di fronte alle immagini del dolore degli altri. Come ci sentiamo di fronte alle immagini della guerra russo-ucraina e a quelle della tragedia in mare a largo delle coste di Cutro?
Susan Sontag è stata una scrittrice, filosofa e storica statunitense che si è sempre interrogata sulla potenza delle immagini e della fotografia, dimostrando di essere un’intellettuale a tutto tondo nel panorama internazionale del Novecento. Davanti al dolore degli altri, pubblicato per la prima volta nel 2003, è un libro pieno di domande sull’arte della fotografia. Susan Sontag si interroga sull’aspetto etico delle immagini, sull’ossessione moderna per l’atrocità delle immagini, su come queste possono farci guardare qualcosa che la parola non può farci vedere, e su come gli spettatori, «noi», assistiamo al dolore raccontato dalle fotografie.
Chi è questo «noi» che guarda da lontano il dolore degli altri?
Non si dovrebbe mai dare un «noi» per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri.
I fotografi ritraggono la sofferenza umana, si avvicinano con la macchina fotografica alla morte, alla sofferenza di una persona. Da diversi anni assistiamo al moltiplicarsi di immagini di dolore, di shock, che ormai fanno parte del nostro vivere quotidiano. Dalla guerra del Vietnam viviamo una nuova «tele-intimità con la morte e con la distruzione». Da allora, le guerre e i massacri filmati sono divenuti un ingrediente principale del flusso di intrattenimento domestico riservato dallo schermo televisivo. Questo perché, come scrive ancora Sontag: «lo shock è divenuto uno dei più importanti criteri di valore e incentivo al consumo». La domanda allora è: come ci poniamo di fronte a queste immagini e cosa rappresentano per «noi»? Perché possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documentano crimini e crudeltà a causa dell’ipercelebrazione mediatica della sofferenza e della distruzione, ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare realmente ciò che esse mostrano. La generatività del pensiero di Susan Sontag sta proprio nell’aver svelato con spietatezza i diversi modi con cui «noi» assistiamo alla miseria che si para dinanzi ai nostri occhi quando un evento scioccante viene rappresentato attraverso le immagini: «chi con compassione, chi con indignazione, chi con curiosità e chi con approvazione».
“L’iconografia della sofferenza” e la curiosità dello spettatore
Susan Sontag, attraverso la sua opera, traccia una vera e propria storia dell’“iconografia della sofferenza”. Ci costringe a riflettere sia da un punto di vista culturale su come reagiamo al dolore degli altri, sia da un punto di vista storico su quale è la storia dello spettatore di fronte alle atrocità. Sontag nomina le esecuzioni in pubblico, gli incidenti in strada, la curiosità morbosa per l’atroce e il voyeurismo. C’è nell’uomo, secondo Sontag, un’attrazione nel vedere qualcuno al confine tra la vita e la morte e nel sentirsi salvo rispetto a questa. Secondo Sontag, vedere qualcuno che muore può essere anche catartico. La filosofa si interroga rispetto alle fotografie dell’11 settembre, al gusto esotico per le immagini che rappresentano vittime di colore e alle vittime delle guerre in Vietnam che hanno interessato e incuriosito lo sguardo morboso degli europei e degli occidentali. Tutti proviamo sentimenti di pietas, di empatia, di frustrazione, di compassione, ma dovremmo scavare anche in quel sentimento di curiosità che ci lega alle immagini del dolore degli altri per interrogarlo e comprenderlo. La curiosità per il corpo martoriato di una vittima di guerra è un sentimento presente che non dobbiamo allontanare. Secondo Sontag, ognuno di noi dovrebbe capire se nel profondo nutre elementi di complicità e sentimenti inconfessabili rispetto al dolore altrui. Dobbiamo interrogarci sul modo in cui certe immagini ci fanno sentire, su cosa proviamo di fronte al dolore degli altri.
Perché la compassione di fronte al dolore degli altri può essere pericolosa secondo Sontag
Ma se dovessimo stabilire quali emozioni sono auspicabili, sarebbe forse troppo semplice optare per la compassione. L’immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l’esistenza tra chi soffre in luoghi lontani – in primo piano sui nostri schermi televisivi – e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un’ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere. Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale.
La compassione che proviamo per le vittime della guerra o per le vittime dei naufragi in mare può essere, secondo Sontag, deleteria. La pietas verso il dolore degli altri può farci sentire sollevati dalle nostre responsabilità. Questa reazione può essere addirittura inopportuna: la compassione, che noi viviamo come sentimento nobile e autentico, può farci “proclamare innocenti”, quando innocenti non siamo, perché privilegiati e lontani da sofferenze che mai potremo capire.
«Noi» – e questo «noi» include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato – non capiamo. Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa. Non capiamo, non immaginiamo.
Dovremmo guardare a quel sentimento di compassione che proviamo di fronte al dolore degli altri per prendere una distanza da esso e guardare lucidamente dove siamo posizionati rispetto a quel dolore. Possiamo davvero, «noi», immaginare qualcosa di quel dolore, di quanto è «terribile e terrificante la guerra», di come è ingiusto e intollerabile morire in mare? Siamo esterni? Siamo implicati? In che relazione siamo rispetto a quelle vittime? Siamo salvi perché lontani o siamo chiamati a fare qualcosa?
Le vittime in mare e “l’esaurimento dello shock”
Ci siamo abituati anche alla sparizione delle foto delle vittime dopo soli pochi giorni. Dove finiranno le immagini dei morti a largo della costa di Cutro tra qualche giorno? Quelle immagini scioccanti spariranno in fretta: ci sarà un “esaurimento dello shock”. Anche lo shock, come scrive Susan Sontag, può diventare familiare e i cadaveri del Mediterraneo potranno essere superati dall’incombere di altre notizie. L’invisibilità delle notizie è un altro problema che ci deve riguardare. Quando certi corpi o immagini di corpi che ci scioccano spariscono, dobbiamo domandarci di tutto quello che sistematicamente viene preso e dimenticato, non considerato, tolto da qualsiasi tipo di visibilità. Dobbiamo continuare sempre a interrogarci sui modi con cui le immagini circolano, sull’importanza che viene data ad alcune di queste e non ad altre. Bisogna chiedersi quanto a lungo può durare un sistema che in poco tempo invisibilizza, dimentica, ad esempio, le immagini dei migranti che muoiono in mare, e quanto ancora possiamo continuare a prendere parte a questa postura. Chi è questo «noi», quindi? In che modo possiamo interessarci alla guerra, ai naufragi in mare e al dolore degli altri? Come possiamo sentirci non indifferenti e trasformare la compassione in azione?