Pregiudizio è un termine carico di teoria. Un vocabolo è tale se dotato, almeno sul piano percettivo, intrinsecamente di valore, positivo o negativo che sia. Pronunciarlo o sentirlo, dunque, causa una certa predisposizione in ragione del fatto che possiede una carica di significato che lo colloca in argini ben precisi. È come se, in quanto tali, questi termini dicessero già qualcosa, se non tutto, e non ci fosse più nulla da aggiungere. Nel caso di ‘pregiudizio’, l’atteggiamento è ostile sin dalle prime battute. Si è così incrollabilmente certi che, in questo caso, si tratti del giusto trattamento? O si può tornare, sotto una luce diversa, sul pregiudizio?
Accogliere il ‘pregiudizio’ come un termine così carico di teoria negativa da non avere nulla di diverso da aggiungere all’indiscriminata estromissione dello stesso, benché paradossale, costituisce già una forma di pregiudizio. E, probabilmente, anche delle peggiori. Di quelle che non concedono diritto di parola a quanto di diverso dalla propria visione del mondo incrociano. Lo schema, sebbene variegato, composito, molteplice, presenta una certa linearità strutturale.
FORME DI PREGIUDIZIO
Poniamo un confronto bidirezionale, intrapreso da due individui. Da un lato dei due capi c’è un soggetto, che si crede il solo ed unico depositario del diritto di parola. E che si presume tale, in quanto assolutamente giusto, buono, ragionevole. E, dunque, meritevole del rispetto dovuto a qualunque individuo con il quale si decida di intrattenere un dialogo. Dall’altro lato, invece, figura un secondo individuo, che il primo soggetto, a priori, espropria di tali diritti. Perché considerato così lontano dalla propria visione del mondo da non meritare nemmeno la possibilità di esprimersi.
E non solo nel perimetro relativo del confronto bidirezionale appena intrapreso – che, in realtà, confronto non lo diventerà mai. Ma anche in qualunque altro contesto questo secondo individuo possa ritrovarsi. Il giudizio del primo soggetto sul secondo individuo è, in via presupposizionale ma al contempo assoluta, tanto incrollabile quanto irreversibile. Non ci sono premesse, chiarimenti e tentativi di spiegazione che tengano. Il soggetto in questione è da condannare, silenziare, isolare senza appello. Senza alcun diritto di replica né di espressione.
PREGIUDIZIO E TRAMA ESSENZIALMENTE DIALOGICA DELLO STARE AL MONDO DELL’UOMO
Eccoci dinanzi ad una delle più deprecabili forme di pregiudizio riscontrabili. In questo caso, sì, al fine di tutelare la trama essenzialmente dialogica del nostro stare al mondo, probabilmente occorre scostarsi dal pregiudizio. Prenderne le distanze, senza molti dubbi. In questo quadro, se ogni dialogo si basa sul diritto alla parola che si concede al proprio interlocutore, decade strutturalmente ogni possibilità di confronto. Si tratta di una dinamica, tanto complessa quanto semplice, mirabilmente sintetizzata dal filosofo francese Michel Foucault. Una prospettiva che siamo chiamati ad abitare. A maggior ragione in un’epoca in cui tolleranza, apertura e disponibilità al confronto si configurano come tematiche cardine dell’agenda sociale. E non sempre – forse addirittura raramente – sono trattate con la dovuta attenzione. Ecco in che termini Foucault si approccia alla questione:
Il polemista […] procede bardato di privilegi che detiene in anticipo e che non accetta mai di rimettere in discussione. Possiede, per principio, i diritti che lo autorizzano alla guerra e che fanno di questa lotta un’impresa giusta; di fronte a sé non ha un compagno nella ricerca della verità, ma un avversario, un nemico che ha torto, che è dannoso e la cui stessa esistenza costituisce una minaccia. Per lui, dunque, il gioco non consiste nel riconoscere l’altro come soggetto che ha diritto alla parola, ma nell’annullarlo come interlocutore di ogni possibile dialogo, e il suo obiettivo finale non sarà quello di avvicinarsi a una verità difficile, ma di far trionfare la giusta causa di cui si proclama, sin dall’inizio, il portavoce. Il polemista si appoggia a una legittimità da cui il suo avversario è, per definizione, escluso.
OLTRE LA SUPERFICIE: IL PREGIUDIZIO ALLA RADICE
Per tutelare l’impresa collettiva della verità ed evitare di estromettere il pregiudizio con atteggiamento pregiudizievole occorre, allora, volgersi sul pregiudizio alla radice. Finora si è oltrepassata di poco la superficie del problema. Ci si è espressi sul pregiudizio della peggiore specie, quello che mina irrimediabilmente la possibilità stessa del dialogo. È necessario spingersi ulteriormente in profondità e chiedersi se, effettivamente, sul pregiudizio si possa dire altro. Per farlo occorre interrogarsi su come si articoli lo stare al mondo dell’uomo. E, in modo particolare, su cosa poggi qualunque nostro processo di conoscenza.
Ogni uomo non solo ha ma è una storia, una vicenda, una nebulosa di vissuto. Nasce in una certa epoca, in uno specifico contesto, in determinate condizioni. Tutto ciò che incontra, nell’ambiente in cui – sin dall’inizio – è gettato, concorre alla formazione della sua identità. Così come entra in contatto e si nutre, tanto spiritualmente quanto materialmente, di quanto ritrova negli scenari che, man mano, eccedono il perimetro dell’ambiente iniziale. In questo processo, l’uomo si imbatte continuamente in qualcosa di sempre diverso rispetto a ciò che ha precedentemente conosciuto. Ma come si approccia a questo sempre diverso? All’altro, al differente, al nuovo che, inevitabilmente, si staglia sulla sua strada? Lo giudica a partire da un preciso, personale e limitato punto di vista.
PARTICOLARI VISIONI DEL MONDO E CONOSCENZA
Cosa si può trarre da ciò? Che tutti, nella vita, siamo chiamati a giudicare ciò con cui entriamo in contatto. E che, quando lo facciamo, ci muoviamo – ed è inevitabile – da quella che è la nostra attuale e limitata prospettiva. Tutti gli uomini, dalla più ordinaria scelta quotidiana al più arduo tentativo di abitare domande prime e ultime, dispongono di una precomprensione. Che altro non è che ciò che, fino al quale momento, del sé e del mondo si sa. Ciò che, fino a quell’istante, si è diventati a partire dalla propria vicenda, storia, situazione.
In altre parole, nessun uomo è esente dal pre-giudizio. Non inteso nell’accezione, ad oggi diffusa, di «atteggiamento sfavorevole» che «presenti, oltre che caratteri di superficialità e indebita generalizzazione, anche caratteristiche di rigidità». Implicando, dunque, «il rifiuto di metterne in dubbio la fondatezza e la resistenza a verificarne la pertinenza e la coerenza». Ma accogliendolo nel senso etimologico di «giudizio antecedente». Particolare e limitato punto di vista dal quale, inevitabilmente e sempre, si valuta tutto ciò che si incontra.
GIUDIZIO ANTECEDENTE E NUOVE PROSPETTIVE
L’uomo possiede ineludibilmente una certa idea di mondo nel suo incedere quotidiano. Costruita, disfatta e ricomposta nel tempo. Costantemente esposta all’incontro con l’altro e, dunque, malleabile, transeunte, passibile di deformazione e formazione. Chiunque legga queste poche e modeste righe, non può che farlo dalla propria particolare prospettiva. Dalla propria visione del mondo, dal proprio sfondo, illuminato da un particolare orizzonte. Dal proprio pregiudizio. Che si configura, in questo caso, come quel giudizio antecedente a ciò che si sta per conoscere. Prospettiva dalla quale ci si affaccia su quel sempre nuovo che, in una qualche misura, andrà a scalfire o rinsaldare il proprio precedente sguardo complessivo sul reale. Per tentare di dipanare la questione, un prezioso suggerimento ci proviene dall’opera del filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer. Il quale, nel cruciale testo Verità e metodo, così si esprime sul pregiudizio e sulla natura essenzialmente dialogica dell’esistenza umana:
Il discorso non è un puro e semplice sciorinare dei nostri pregiudizi, ma li mette in gioco, li espone ai nostri dubbi, come alla replica dell’altro […]. La semplice presenza dell’altro che ci si fa innanzi aiuta, già prima che questi prenda la parola per replicare, a scoprire i nostri pregiudizi e la nostra parzialità, a disfarcene.
Ecco, allora, il nodo cruciale della nostra riflessione sul pregiudizio. Il punto non risiede nella mera ed esclusiva estromissione a priori di tutti i giudizi antecedenti che l’uomo, inevitabilmente, possiede. Visioni del mondo a partire dalle quali si articola il nostro orientamento e movimento nell’incedere quotidiano. In tal caso ci si volgerebbe sul pregiudizio con atteggiamento pregiudizievole, realizzando – paradossalmente – ciò da cui si rifugge.
DISTRUGGENDO SI COSTRUISCE, COSTRUENDO SI DISTRUGGE
Il punto della questione sta, invece, nell’accogliere il pregiudizio nella sua mobilità. Di metterlo in gioco, appunto. Di esporlo al dubbio nell’incontro con ciò che è altro dalla nostra attuale e parziale visione del mondo. Se, in parte, siamo determinati dalla nostra nebulosa di vissuto è pur vero che, in una qualche misura, siamo liberi di rielaborarla, riconsiderarla, ripensarla. Per solidificare o ristrutturare quell’insieme di simboli, valori, norme e credenze che siamo. Distruggendo si costruisce, costruendo si distrugge. Fa parte del gioco della vita, della conoscenza, della verità. È il gioco della vita, della conoscenza, della verità. A noi – esseri parziali, transeunti, limitati – non è dato liberarci della nostra particolare prospettiva, del nostro pregiudizio. Possiamo, però, dilatarli, estenderli, espanderli. Abbandonare l’insano e irretente atteggiamento pregiudizievole che si è incontrato alle prime battute di questo breve sentiero sul pregiudizio. Approssimandoci, così, in maniera asintotica ed ininterrotta alla complessità del mondo.
Mattia Spanò