Il numero di suicidi in carcere in Italia continua a registrare numeri in crescita. L’ultimo si è verificato il giorno di Pasqua, quando un detenuto di 32 anni si è tolto la vita facendo salire a 28 il numero delle vittime dall’inizio dell’anno. A renderlo noto è Antigone, associazione impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie all’interno del sistema penale italiano. Questa continua escalation richiama con urgenza l’attenzione delle istituzioni governative e parlamentari affinché si adottino provvedimenti immediati.
Qualche giorno fa il Ministro della Giustizia Nordio ha fatto sapere di aver firmato un decreto che prevede l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria “per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Il fine è quello di prevenire e contrastare il fenomeno suicidario e ridurre il disagio dei detenuti e per questo, stando a quanto dichiarato dal Ministro, è stato “più che raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione” anche in vista di “un intervento più strutturato e duraturo nel tempo da proporre come priorità nella prossima legge di bilancio”.
Ciò che risulta evidente è, però, che questi 5 milioni non serviranno per aumentare personale o servizi all’interno delle carceri, ma piuttosto a mantenere lo stato attuale. A chiarirlo è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, il quale ha affermato che “fino al gennaio scorso, i professionisti ex art. 80, incaricati di monitorare i detenuti e accompagnarli nel percorso di rieducazione, ricevevano una retribuzione lorda di 17 euro l’ora. Da febbraio il loro compenso lordo è salito a più di 30 euro. A spesa invariata, ciò avrebbe comportato una riduzione delle prestazioni erogate”.
Una mossa necessaria, tuttavia non sufficiente. Per Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti di Antigone “il tema dei suicidi in carcere è una pianta così secca che ogni piccola goccia d’acqua ha un grande effetto”. Tuttavia, sostiene che “bisognerebbe anzitutto rendere l’ambiente meno patogeno, oltre ad affinare gli strumenti per gestire la patologia”.
Che cosa intende?
“Noi teniamo il conto del numero dei suicidi, ma i dati sugli autolesionismi sono esorbitanti, come lo sono i dati sui tentati suicidi. Il suicidio è la punta di un iceberg di malessere che non è frutto solo della mancanza dello psicologo, ma anche dalle condizioni in cui sei detenuto, da come è fatta la tua giornata, dalle attività che non ci sono, dal fatto che, ad esempio, devi gestire l’ansia per un’uscita che ti spaventa perché si avvicina e tu sei nella stessa situazione in cui eri quando sei entrato, o anche peggio”.
A rendere tutto più complesso e confuso, spiega, è la premessa fondamentale che la responsabilità della salute delle persone detenute non è più del Ministero della Giustizia ormai da anni, ma del Ministero della Salute. Psichiatri e psicologi, in questo senso, dovrebbero essere messi a disposizione dal servizio sanitario nazionale: “spesso, però, non è il carcere che resiste alla presenza dei medici, ma sono le Asl che non sono entusiaste di condividere certe risorse. Non è solo un problema di mancanza di aperture, a volte è un problema di mancanza di interesse”.
Poi ci sono gli esperti ex art. 80, che invece sono contratti di consulenza di fatto pagati a ore dal Ministero della Giustizia, rappresentando un secondo binario lungo il quale si muovo dentro gli istituti.
“Il problema di fondo quando si parla di personale medico è che questo manca dappertutto. Questo si deve anche al fatto che in molti, se possono scegliere dove esercitare la propria professione di cui c’è domanda, ovviamente non scelgono il carcere. Quindi trovi persone che lavorano in questi ambienti per periodi molto brevi e c’è un ricambio continuo, che insieme alla carenza di personale, crea un problema enorme perché diminuisce le chances di costruire un rapporto col paziente”.
Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui i 5 milioni stanziati da Nordio sarebbero un bene: l’innalzamento degli stipendi dei professionisti ex art. 80 garantirebbe una certa continuità, consentendo la costruzione di percorsi più lunghi, progettuali e impegnativi. Ma di fatto non risolve il problema.
“Coordinare le attività molto spesso non è semplice perché queste figure rispondono a due istituzioni diverse e quindi bisogna costruire dei protocolli per la prevenzione del rischio suicidario in cui si stabilisce chi fa cosa e il tipo di intervento, protocolli che comunque hanno ostentato un po’ a partire, ma che aiutano ad orientare il lavoro delle persone. La mia impressione è che le istituzioni fino ad oggi non se ne siano preoccupate tantissimo”.
Su chi ricade la responsabilità quando qualcuno muore in carcere?
“In carcere, quando una persona muore, l’autorità giudiziaria apre subito un fascicolo, perché si parte dal presupposto che sia un luogo dove è necessaria più cautela. In qualche modo tutte le morti sono sospette, ma questo meccanismo fa anche sì che venga sempre accertata o esclusa la responsabilità di qualcuno. A volte, per esempio, nei casi di suicidio, a venire processato è l’agente che avrebbe dovuto passare davanti alla cella ogni tot minuti e invece non si sa se ci è passato con maggiore o minore frequenza. Il fallimento del carcere che viene scaricato sull’ultima ruota del carro”.
Di cosa ci sarebbe davvero bisogno per arginare il fenomeno dei suicidi in carcere?
“C’è bisogno che il tempo che le persone passano in carcere sia vissuto come un tempo costruttivo, sensato. Devono avere la sensazione che quando usciranno avranno acquisito una professionalità, una competenza su qualcosa. Nel frattempo magari saranno riusciti anche a mantenere un rapporto con un figlio, una moglie, un compagno. I contatti con l’esterno aiutano e queste relazioni vanno sostenute, non osteggiate. Questo è importante soprattutto in un sistema carcere che è fatto in gran parte di persone che ci tornano. I percorsi di reinserimento che funzionano non solo abbattono la disperazione, ma anche il sovraffollamento”.
Quello del sovraffollamento è un altro problema importante che aggiunge una certa difficoltà alla vita carceraria. La CGIL nazionale, elaborando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha tracciato un ritratto del sistema carcerario italiano: 189 istituti penitenziari in cui, a fronte di 51 mila posti regolamentari, sono presenti 61 mila persone. Considerando i posti effettivamente disponibili, sono 14mila le persone in eccesso. Un numero che porta il tasso di sovraffollamento medio del 119%.
A peggiorare una situazione già critica troviamo poi spazi fatiscenti, condizioni detentive degradanti, carceri antiquate con celle spesso non riscaldate o senza acqua calda né doccia, con bagni a vista, strutture con spazi individuali inferiori ai 3 metri quadrati. Un quadro che favorisce l’insorgere di molte problematicità, a partire dal disagio mentale.
Per Scandurra “Abbattere il sovraffollamento vuol dire che gli psicologi possono lavorare con un numero più basso di detenuti, che i corsi di formazione possono essere condivisi con un numero più basso di sezioni e quindi più persone hanno possibilità di partecipare. La soluzione al problema è semplicemente che il carcere faccia il suo mestiere, quello che gli attribuisce la legge e la Costituzione: costruire programmi per il reinserimento della persona”.
Ma investire sul reinserimento sociale è qualcosa che secondo Scandurra non si fa da tempo, non lo ha fatto il governo precedente e di sicuro non lo farà questo, anche se sperano di restare “positivamente stupiti”.
Crede ci sia stato un peggioramento dall’insediamento del nuovo governo Meloni?
“Direi di si. L’aumento delle fattispecie di reato e l’inasprimento delle pene hanno portato a una crescita delle presenze negli istituti. C’è questa tendenza ad aumentare la carcerazione invece che diminuirla. Soprattutto il caso dei minori è clamoroso: per la prima volta da decenni che si fanno interventi normativi allo scopo di facilitare l’ingresso dei minori in carcere. Era sempre stato fatto il contrario. Nel frattempo si concedono più spazi di manovra alla polizia penitenziaria promettendo di cancellare o modificare il reato di tortura e introdurre il reato di rivolta carceraria. Diciamo che per la gestione delle tensioni non sono state proposte soluzioni, ma di utilizzare il pugno di ferro”.
Una linea, questa, che trova riscontro anche nell’affermazione del sottosegretario Ostellari, che nella nota in cui si annunciava lo stanziamento da 5 milioni, ha aggiunto “abbiamo rispedito al mittente le chiacchiere della sinistra, che negli scorsi anni è stata solo capace di emanare decreti svuota carceri”.
Tutto questo, per Scandurra, ha un effetto negativo anche sulla cultura, sulla percezione e sul clima sia per chi vive dentro che fuori dal carcere.
“Se si continua a trattare i detenuti come persone di serie b, con edifici di serie b, un’assistenza sanitaria di serie b, pasti di serie b, come si può, anche solo per scherzo, pensare che questo possa rientrare in un contesto di rieducazione o di inclusione? […] Il rischio è un’escalation della tensione e della violenza. Bisogna andare in direzione opposta e trovare soluzioni a problemi creando ad esempio più spazi di coinvolgimento del volontariato e della società civile. Bisogna ricordare che un carcere chiuso è un carcere più pericoloso, anche per chi ci lavora”.