di Alessandra D’Alessio
Psicologa- Psicoterapeuta -Responsabile Dipartimento Psicologia Militare del Nuovo Sindacato Carabinieri
Nel pomeriggio di ieri si è tolto la vita con la pistola d’ordinanza un carabiniere in servizio presso il comando provinciale di Fermo ad un solo giorno da un gesto analogo compiuto con la stessa modalità e nella stessa città da un poliziotto di 50 anni. Ad Ancona il 25 maggio un agente della Polizia di Stato si era tolto la vita con la pistola d’ordinanza sul letto del suo alloggio.
Il Nuovo Sindacato Carabinieri questa mattina ha pubblicato i dati relativi ai suicidi negli appartenenti alle Forze dell’Ordine dall’inizio dell’anno: in soli 5 mesi si sono tolti la vita 8 appartenenti alla Polizia di Stato, 6 all’Arma dei Carabinieri, 3 alla Guardia di Finanza, 3 alla Polizia Penitenziaria, 3 alla Polizia Locale, 2 all’Esercito Italiano, 2 ai Vigili del Fuoco, 1 all’Aeronautica Militare ed 1 era una Guardia Giurata. Quasi tutti armati e quasi tutti si sono tolti la vita con la pistola in dotazione.
Ma cosa sappiamo di loro? All’ indomani della notizia non si sa più nulla delle loro vite, delle storie mai raccontate, degli amori finiti e del dolore non detto. Sono solo numeri che finiscono nel calderone della triste conta annuale.
Nel 2020 sono stati 51 i suicidi nelle forze dell’Ordine, mentre nel 2021 addirittura 57. Numeri che devono indurre ad una riflessione. Colpisce che l’anno 2020 registri una cospicua deflessione che personalmente correlo sia ad una diminuzione del carico lavorativo degli appartenenti alle FFOO e sia ad una situazione che ho avuto modo di rilevare nel corso del 2020 quando eravamo in piena emergenza pandemica, periodo in cui ho continuato a lavorare attivamente nel sostegno psicologico agli appartenenti alle Forze dell’Ordine anche con interventi telefonici gratuito in accordo con una pluralità di sindacati militari con cui collaboro.
La pandemia ha creato una vera e propria emergenza psicologica mondiale che ha colpito in particolar modo le categorie più deboli, tra tutti i bambini e gli adolescenti ma ho avuto modo di rilevare che l’emergenza pandemica e la relativa vaccinazione obbligatoria abbia “slatentizzato” negli appartenenti alle FFOO delle patologie latenti e che sino a quel momento di enorme disagio erano ben compensate, situazione questa che ha indotto molti dei nostri militari ad usufruire di un congruo periodo di convalescenza che a mio parere in alcuni casi ha evitato il peggio. Si tratta del gravoso problema delle sindromi psicologiche e psichiatriche sommerse, quelle che non vengono riferite per paura, per un forte sentimento di inadeguatezza, … ma sono poi quelle che possono creare una sofferenza tale da indurre in alcuni casi a gesti estremi.
Esiste una predisposizione psicologica all’atto suicidario ma indubbiamente elementi ambientali possono favore il cosidetto “agito”. Avere a disposizione un’arma favorisce il compimento di questo atto estremo infatti le categorie con accesso alle armi hanno una probabilità maggiore di suicidarsi o di essere intenzionati a farlo. Così come chi decide di suicidarsi cerca un’arma per farlo. Dunque si rende necessario promuovere il benessere psicologico per quelle categorie che per svolgere il proprio servizio hanno in dotazione un’arma da fuoco.
L’art. 748 del TUOM prevede per ogni militare l’obbligo di conservare le capacità psico-fisiche. Nel mio lavoro rilevo quotidianamente condizioni di malessere negli appartenenti alle forze dell’Ordine che scaturiscono da una pluralità fattori ma di fatto,a fronte di questo preciso obbligo, le varie amministrazioni non mettono in atto azioni concrete. Una per tutte sensibilizzare sull’ importanza del sostegno psicologico e della psicoterapia promuovendole attraverso specifiche convenzioni con psicologi civili superando così la figura dell’ufficiale psicologo che è al tempo stesso un operatore della salute mentale ma anche un superiore gerarchico, condizione che di fatto non predispone i militari all’apertura emotiva e non li pone in un rapporto di fiducia che è alla base di ogni percorso terapeutico.
Le iniziative di tutela del benessere psicologico nelle varie amministrazioni di tutte le forze armate si concretizzano quasi esclusivamente in azioni di tipo “valutativo” e quasi mai di sostegno vero e proprio. Basti pensare alle estenuanti valutazioni nelle Commissioni Mediche Ospedaliere che hanno l’obiettivo di accertare le infermità che sono causa di non idoneità al servizio militare (Gazz. Uff. 9 giugno 2014, n. 131) a fronte delle quali non sono previsti percorsi di accompagnamento e sostegno alla comprensione della propria diagnosi che di fatto si esprime sulla personalità del valutato e sui suoi limiti attraverso un linguaggio tecnico e poco comprensibile dai non addetti ai lavori. In tali situazioni i militari chiedono aiuto esprimendo preoccupazione per il futuro, delusione e tanta solitudine. Oppure se pensiamo alle conseguenze psicologiche degli “eventi critici di servizio” a fronte dei quali non è previsto l’intervento della figura dello psicologo dell’emergenza. Si tratta di eventi potenzialmente traumatici per un operatore delle forze dell’Ordine poiché se non opportunamente elaborati sono in grado di far insorgere nel lungo periodo una vera e propria patologia della sfera emotiva.
La vita lavorativa, e di conseguenza quella privata dei nostri militari, è davvero impegnativa e poco tutelata. La vita militare comporta una serie di rinunce nel campo della vita privata che sono fonte di stress e malessere. Se pensiamo a quanti di loro sottoposti a trasferimenti periodici debbano allontanarsi dalle proprie famiglie e dai propri figli oppure a quei militari coinvolti in procedimenti penali derivanti dallo svolgimento del proprio servizio che ancora una volta devono tutelarsi da soli e per i quali in taluni casi sono sottoposti a sospensione dal servizio con relativa sofferenza anche sul piano economico.
Nello svolgimento della mia professione in ambito civile con i militari sono depositaria di tutte quelle che rappresentano le reali criticità che possono produrre una ideazione suicidaria, e di fatto in terapia troppo spesso si lavora proprio su questo. Nel mio piccolo rappresento un punto di osservazione “privilegiato” che sento il dovere di rappresentare così come la sofferenza legata allo svolgimento di alcuni servizi quali ad esempio nella Marina Militare dove attualmente c’è una gravosa incidenza del disturbo Post Traumatico da stress negli addetti al servizio di recupero dei migranti (vivi e morti) in condizioni estreme e di disagio legato alla durata delle navigazioni che spesso supera anche gli 8 mesi consecutivi ed alle difficoltà di gestione degli eventi critici a seguito dei recuperi: carenza di personale a bordo, spazi insufficienti, risse, luoghi inidonei alla conservazione dei cadaveri.
I militari soffrono. Cerchiamo di ricordarlo quando troppo spesso subiscono gratuito e pubblico disprezzo.