Sudan, una pace impossibile per un paese dimenticato

Sudan

In dieci mesi la Guerra civile in Sudan ha provocato oltre 8 milioni di sfollati causando una crisi umanitaria ad oggi senza vie d’uscita. Oltre allo scontro tra l’esercito sudanese e le forze paramilitari, nel paese si combattono altri due conflitti, quello tra Iran ed Emirati Arabi e il confronto a distanza tra Ucraina e Russia.

In questi dieci mesi, la guerra in Sudan tra l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan e le Forze di supporto rapido (RSF) al comando del ribelle Mohamed Dagalo, ha condotto il paese sull’orlo del baratro.
Il conflitto, che rappresenta l’atto finale della resa dei conti tra i due uomini forti del regime sudanese, ha assunto la forma definitiva di una guerriglia etnica con campagne di mobilitazione popolare lanciate su base settaria. Alle alleanze di tipo “istituzionale” cercate dall’esercito regolare sudanese, le RSF hanno risposto con il coinvolgimento diretto delle comunità arabe, proiettando sul conflitto un “sentimento di comune identità” capace di unire la causa  bellica e le numerose milizie tribali.
A quasi un anno dall’inizio delle ostilità  la pace fatica terribilmente a trovare spazio. Fino ad ora, la guerra ha già provocato 15 mila morti e 8 milioni di profughi. Le sistematiche atrocità perpetrate dai berretti rossi di Dagalo a el Geneina, capitale del Darfur occidentale, nei confronti della popolazione locale (appartenente in maggioranza all’etnia masalit) hanno riportato alla memoria lo spettro di un nuovo genocidio in quei territori.
E come accade per ogni guerra, anche in Sudan  a complicare ulteriormente la situazione c’è il pericolo della proliferazione incontrollata di nuovi armamenti sempre più potenti e letali, forniti ai due contendenti dai diversi paesi stranieri coinvolti. Secondo un rapporto stilato da un gruppo di esperti dell’ONU, nel paese si combattono tre guerre in una. Dietro lo scontro tra i due generali è in corso un confronto indiretto che vede coinvolti l’Iran e gli Emirati Arabi Uniti (EAU), rispettivamente alleati di al Burhan  e delle Rsf. Ma non è tutto, perché negli affari sudanesi sarebbe invischiata anche l’Ucraina, pronta a ostacolare l’avanzata della Russia in Africa. 

Un paese sull’orlo dell’implosione

Oggi, nel paese africano il processo negoziale è in stallo. La tendenza alla frammentazione su basi etniche del conflitto ha lasciato cadere nel vuoto i timidi e incerti passi verso un accordo di pace duraturo.  All’escalation degli ultimi mesi è infatti corrisposto un progressivo indebolimento delle iniziative diplomatiche in campo internazionale mentre i due belligeranti sono ricorsi alle negoziazioni soltanto per guadagnare tempo e riorganizzare le rispettive operazioni militari.



A gennaio, alti dirigenti dell’esercito sudanese e delle RSF si sono incontrati tre volte a Manama, in Bahrein per trovare una soluzione negoziale che il campo di battaglia sembrerebbe non essere in grado di offrire.  Ai colloqui erano presenti anche funzionari di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, principali sostenitori rispettivamente di al Burhan e dei paramilitari guidati da Dagalo.

Gli incontri di Manama seguono, a distanza di un anno, gli infruttuosi colloqui di Gedda, in Arabia Saudita, dove gli accordi raggiunti erano stati puntualmente disattesi dalle due parti belligeranti. Per il momento, all’orizzonte non si vedono ipotesi concrete per arrivare alla cessazione del conflitto mentre la frustrazione della diplomazia regionale cresce all’aumentare delle violenze contro la popolazione civile.

Il ruolo delle monarchie del Golfo e il controllo delle “porte dell’Africa”

In questi dieci mesi di guerra, alla destabilizzazione completa del Paese ha concorso anche il sistematico rifornimento di armamenti assicurati dai paesi stranieri impegnati a sostenere lo sforzo bellico dei due generali in lotta. Il rapporto stilato dagli esperti delle Nazioni Unite, evidenzia come le RSF siano riuscite a riconquistare il Darfour anche grazie alle linee di approvvigionamento costanti (carburante, munizionamento, automezzi e armamenti pesanti) passanti dal Ciad e dalla Libia.

Tra i principali armatori e finanziatori delle milizie paramilitari di Dagalo ci sono gli EAU. La notizia, peraltro già piuttosto nota sin dalle prime settimane di guerra, è basata su foto satellitari e testimonianze di funzionari dell’intelligence di diversi paesi occidentali, USA e UE in particolare. Dallo scorso giugno numerosi aerei cargo partiti da Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, sono atterrati nell’aeroporto Amdjarass nel nordest del Ciad dopo una serie di scali  in altri paesi della regione, come l’Uganda, il Kenya e il Rwanda.

E per quanto gli emiratini abbiano investito in Sudan anche in altri settori, mettendo a disposizione 6 miliardi di dollari per creare una filiera di approvvigionamento alimentare, le forniture militari continuano a rappresentare il core business della monarchia petrolifera nel paese africano.  L’intreccio di affari tra RSF e Abu Dhabi ha il suo centro gravitazionale nella persona dello stesso Dagalo che ha investito una parte delle enormi ricchezze accumulate con l’estrazione e la commercializzazione spesso illegale dell’oro, per armare le sue milizie.

Il capo dei nuovi janjawid è infatti uno dei leader incontrastati dell’industria estrattiva sudanese con la sua compagnia al-junaid che dal 2019 controlla un cartello di circa cinquanta aziende del settore. Il rapporto delle Nazioni Unite cita anche una Banca, la Al Khaleej Bank, che ha messo a disposizione delle RSF 50 milioni di dollari da investire nello sforzo bellico. La Al Khaleej Bank è controllata dalle RSF ed è parte integrante della holding Al-Fakher Advanced Works Co. Ltd., che permette a Dagalo di esportare oro all’estero e riciclare miliardi di dollari da attività illecite.

Dal mar Rosso al Sudan, i piani dell’Iran in Africa

La penetrazione dei paesi del Golfo in Africa ha attirato l’interesse di un altro attore della regione mediorientale, l’Iran. Dopo sette anni di interruzione, lo scorso ottobre Teheran ha ripreso i legami diplomatici con il Sudan. L’annuncio ufficiale è arrivato con un comunicato congiunto emesso dai rispettivi ministeri degli Esteri sudanese e iraniano.

Per l’Iran, la normalizzazione delle relazioni con Khartum è parte di una campagna di politica estera concertata dall’amministrazione del presidente Ebrahim Raisi per ristabilire le relazioni con gli ex alleati, in particolare quei Paesi con cui aveva rotto le relazioni nel 2016, quando ci fu l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran. Nei piani della repubblica degli ayatollah il Sudan ha un valore geostrategico particolare in quanto si affaccia su una delle rotte marittime più trafficate del mondo nel mar Rosso.

Sul versante sudanese, a trarre vantaggio dell’interessamento iraniano è invece al Burhan che mira a espandere la sua cerchia di partner sulla scena internazionale. È in questo scenario che il comandante in capo della giunta militare ha ricevuto un sostegno pratico da parte di Teheran concretizzatosi nella fornitura di droni da combattimento per proseguire la guerra.

Ad incidere nelle relazioni tra Karthoum e Teheran c’è poi la posizione assunta nel contesto africano dall’Arabia saudita che non può essere ignorata. Il miglioramento delle relazioni iraniano-saudite è infatti fondamentale per i rapporti tra Riad e gli ayatollah. Al Burhan è sostenuto anche dai sauditi e gli sforzi di Teheran per migliorare le relazioni con il generale sudanese fanno parte di una strategia molto più ampia, finalizzata ad allontanare Riad da Israele e Stati Uniti. 

La guerra tra Mosca e Kiev si allarga all’Africa?

Nel conflitto tra al Burhan e Dagalo, s’intrecciano ancora le vicende belliche di Mosca e Kiev. Lo scorso settembre, un’indagine della CNN ha rivelato che i servizi segreti ucraini sarebbero stati coinvolti in operazioni militari sotto copertura contro le RSF, appoggiare a loro volta dalla famigerata compagnia paramilitare russa Wagner, legata ad ambienti dei servizi segreti del Cremlino (GRU e FSB). Nel corso della guerra, i mercenari russi hanno sostenuto Dagalo sia in forma indiretta (fornendo supporto logistico, pianificazione e addestramento) che diretta, attraverso il flusso di convogli di armi e materiali.

Le informazioni riportate nell’indagine della rete televisiva statunitense trovano un’ulteriore conferma in un articolo pubblicato sul  Kyiv Post, nel quale si legge che droni ucraini avrebbero condotto quattordici attacchi rivolti a 7 obiettivi delle RSF nei pressi della capitale Khartoum. Nei bombardamenti sarebbero stati colpiti “mercenari russi” e i loro “terroristi partner locali” non appartenenti  “all’esercito sudanese” (presumibilmente le RSF, definite dal governo di al Burhan come terroristiche).

Da parte sua, l’Ucraina non ha rivendicato ufficialmente la responsabilità degli attacchi, lasciando però intendere da che parte sia schierato il governo di Kiev nella guerra civile sudanese. Ad oggi, l’unica certezza dietro i numerosi intrecci bellici che vedono protagoniste sempre più nazioni straniere, è rappresentata dalla tragedia vissuta dalla popolazione sudanese.

Prima dell’inizio della guerra un terzo degli abitanti dello stato africano  erano in una situazione sanitaria e alimentare critica che richiedeva un urgente sostengo da parte della comunità internazionale. Oggi, con un conflitto che dura ininterrottamente da dieci mesi, salvo brevi pause per rastrellare provviste e raccogliere i morti, l’opposizione dei capi militari nell’impedire che gli aiuti umanitari giungano alla popolazione, ha trasformato la situazione in una catastrofe. Soltanto a dicembre oltre mezzo milione di persone è fuggito da Gezira, nella parte orientale del paese, provocando rivolte e saccheggi nei magazzini del WFP.

Ma a Khartoum la giunta militare pensa soltanto a vincere la guerra. Nelle scorse settimane al Burhan ha motivato le sue truppe assicurando che le RSF verranno definitivamente distrutte e che il trionfo è oramai prossimo. Per il generale sudanese questo non è il momento di perdersi in chiacchiere inseguendo inutili “negoziati di pace” ma è ancora il tempo di combattere, casa per casa, strada per strada, villaggio per villaggio.

Tommaso Di Caprio

 

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