Il Consiglio militare di Transizione e l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento, il principale blocco di opposizione in Sudan, hanno raggiunto un accordo politico dopo sette mesi di scontri e proteste. L’intesa, mediata dall’ Unione Africana e dall’Etiopia, prevede la creazione di un consiglio transitorio, composto in modo paritetico da militari e civili, che guiderà il paese per i prossimi tre anni. Benché l’opposizione abbia celebrato l’accordo come un trionfo, rimangono ancora molti dubbi sulla buona fede dei generali, che più di una volta hanno dimostrato di non voler perdere il controllo della situazione. Preoccupa, soprattutto, che la reggenza del consiglio transitorio venga affidata per i primi 21 mesi ai militari stessi, un lasso di tempo considerevole che concede alla cricca degli ufficiali tutto l’agio di riorganizzare le proprie fila.
Lasciando da parte le pressioni internazionali dietro l’accordo, non è un caso che l’appello al dialogo sia arrivato dalla giunta militare proprio sull’onda di una nuova ascesa delle proteste che hanno già portato alle dimissioni di Omar al-Bashir l’11 aprile. La stessa deposizione dell’ex-presidente al-Bashir era stata prontamente additata dalla Sudanese Professionals Association come un colpo di stato interno alla casta militare.
I timori dell’opposizione sulle intenzioni dei generali si sono concretizzati il 3 giugno, quando il Consiglio militare di Transizione, instauratosi alla caduta di al-Bashir, ha dato ordine di sgomberare brutalmente il sit-in davanti al quartiere generale dell’esercito a Khartoum, uccidendo più di cento persone. La violenta repressione è stata portata avanti dalle temibili Rapid Support Forces, un corpo paramilitare legato ai servizi segreti e comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, noto per la propria ambizione e spietatezza.
Durante l’intervento dei paramilitari,per lo più provenienti dalle milizie Janjaweed, i battaglioni della morte impiegati da al-Bashir nella guerra del Darfur, sono state riportate notizie di violenze indiscriminate sui manifestanti, aggressioni agli abitanti del quartiere, torture e stupri. Dal 3 giugno, inoltre, il consiglio militare ha imposto un blocco della connessione a internet, che dovrebbe finalmente terminare a seguito dell’accordo della settimana scorsa.
Nonostante la brutalità della repressione del 3 giugno, la Sudanese Professionals Association, in un comunicato del giorno successivo, annunciava nuovi scioperi e la prosecuzione della disobbedienza civile. Il culmine di quest’ultima fase delle mobilitazioni si è avuto il 30 giugno, durante un’imponente manifestazione a Khartum e in tutti i principali centri del Sudan che, nell’intento degli organizzatori, sarebbe dovuta essere una marcia di un milione di persone, in occasione del trentesimo anniversario del golpe che portò al-Bashir al potere. Per l’ennesima volta, le Rapid Support Forces e l’esercito hanno attaccato i manifestanti, provocando 11 morti.
Non si è fatta attendere, però, la risposta della popolazione, estenuata dalle continue violenze dei militari. Già il giorno dopo, a Omdurman, il ritrovamento nel Nilo di tre cadaveri crivellati dalle pallottole ha portato a nuovi assembramenti e scontri con le forze armate. L’intensificarsi delle mobilitazioni, assieme alla attesa di altre due importanti appuntamenti di protesta il 13 e il 14 luglio, ha ribaltato i rapporti di forza a favore dell’opposizione, costringendo i militari a tornare sui propri passi.
L’accordo tra il Consiglio militare di Transizione e l’opposizione prevede una gestione alternata del nuovo consiglio transitorio. Questo, tuttavia, è in aperta contraddizione con le richieste dei manifestanti, che hanno da subito preteso la cacciata del regime militare e la convocazione di nuove elezioni, con la parola d’ordine “tutto il potere ai civili”. Oltre all’ambiguità lasciata dall’accordo rispetto ai futuri sviluppi politici, rimangono irrisolti i seri problemi sul fronte economico.
È stato infatti il deterioramento della situazione economica a innescare il movimento nel dicembre 2018, allorché l’ex-presidente al-Bashir aveva deciso di triplicare il prezzo del pane e l’inflazione aveva raggiunto il picco del 72,94 %. Dalla secessione del Sudan del Sud nel 2011, Khartum ha perso il 75% delle entrate derivanti dal petrolio, i cui pozzi erano situati per lo più nel sud del paese. Questo ha assestato un colpo molto duro ad un’economia già piegata dai debiti e impoverita da svendite e privatizzazioni, sul cui capo sono pesate per anni le sanzioni imposte dagli Stati Uniti. La popolazione locale è costretta a fare la coda per il pane, per il carburante e per il denaro contante. In questo contesto di estrema difficoltà, è arduo immaginare uno scenario di pacificazione, a meno che non si ponga argine alla crisi economica.
Francesco Salmeri