Giuseppe Berto: successi e nevrosi dello scrittore più polemico del dopoguerra

Giuseppe Berto

La vita di Giuseppe Berto sembra una curiosa contaminazione tra un’opera di D’Annunzio e una di Svevo, in cui i sogni di gloria, le grandi passioni, la ricerca della provocazione si intrecciano senza soluzione di continuità con gli atteggiamenti nevrotici, le insicurezze e i colpi di sfortuna. Ma la sua vicenda è soprattutto un ottimo esempio di quanto sia complesso il mestiere di scrivere.

Dalla guerra alla letteratura

Giuseppe Berto fu fascista in gioventù; prese parte alle guerre in Africa, con l’aggravante di essere un combattente volontario. Nel romanzo Il male oscuro egli ricondurrà questo errore giovanile non tanto a pressioni di natura socio-culturale, quanto alla propria, tormentata relazione con la figura paterna, simbolo incontrastato di autorità.

Con lo sbandamento dell’esercito italiano, Berto fu catturato e condotto in un campo di prigionia americano, dove rimase per tre anni. Egli visse l’esperienza del campo in modo inaspettatamente positivo, almeno per quanto riguarda la creatività. I soldati vivevano infatti in una sorta di utopia comunitaria, in cui anche individui di umile estrazione, liberi dalle fatiche del lavoro e bisognosi solo di occupare le giornate, rinascevano come poeti, teatranti, pittori. Berto, che non aveva mai nutrito particolari velleità intellettuali, scoprì la passione per la scrittura.

Le alterne fortune

Giuseppe Berto tornò in Italia nel ’46. La politica, la società, lo stesso paese natale, Mogliano Veneto, erano nel frattempo profondamente cambiati. I reduci del suo stampo – che si erano arruolati volontari e si erano poi rifiutati di collaborare con gli americani – non venivano certo accolti come eroi al loro rientro.

Berto aveva tuttavia trovato la sua strada: avrebbe vissuto della propria arte, e raggiunto, tramite le sue opere, quella gloria che inutilmente aveva inseguito sui campi di battaglia. La sua stoffa era quella dell’artista, impulsivo e sentimentale, più che dell’intellettuale colto e impegnato. La sua opera prima, Il cielo è rosso, rappresenta il tentativo di redenzione da un passato compromettente: un atto di accusa contro ogni guerra, condotto nelle forme e nei modi del neorealismo, l’indirizzo letterario al tempo dominante.

Lo stesso stile caratterizzerà anche le opere immediatamente successive , che però non incontrarono lo stesso favore, soprattutto da parte della critica. Gli esperti lo etichettarono come un autore commerciale, buono per il pubblico americano (negli Stati Uniti fu effettivamente uno dei romanzieri italiani più letti), ma di scarso valore artistico. Inoltre iniziarono a emergere le prime ostilità di natura politica, e prese il via lo scontro con i cosiddetti “radicali”, gli intellettuali più in vista del momento, rei (a suo dire) di averlo escluso dai loro circoli, in quanto non allineato ideologicamente. Educato al fascismo, Berto aveva nel tempo maturato una profonda diffidenza verso qualsiasi ideologia che avesse pretese totalizzanti, a destra come a sinistra, finendo per proclamarsi “anarchico per disperazione e disgusto”. Questa presa di posizione sprezzante lo lasciava però isolato, negandogli la protezione e l’appoggio degli intellettuali “schierati”, così influenti all’epoca.

Giuseppe Berto, scrittore nevrotico

Fu così che lo scrittore sviluppò la nevrosi.  I sintomi (attacchi di panico, somatizzazioni, fobie di ogni tipo) erano  invalidanti sul piano personale e professionale. Le cause remote emersero dopo anni di psicoanalisi, e, manco a dirlo, furono ricondotte al rapporto con il padre. Da tale relazione sarebbe derivato il suo bisogno costante di dimostrare il proprio valore (l’ossessione per la gloria), unito al terrore di fallire (da cui il blocco dello scrittore che lo aveva afflitto dopo le critiche negative). L’analisi non lo liberò mai completamente delle proprie ossessioni, ma gli permise di tornare a scrivere. Soprattutto, gli consentì di realizzare il suo sogno: pubblicare un capolavoro.

Il male oscuro , uscito nel ’64, è un romanzo delicatissimo e ironico, smaccatamente autobiografico, e lontanissimo dai modelli del realismo coevo, poiché incentrato sull’interiorità psichica del suo autore. Partendo dal particolare della sua esperienza, Berto riesce a toccare l’universale della condizione dello scrittore moderno, con le sue idiosincrasie e fragilità, meglio di quanto non avessero fatto scrittori ben più esposti sul piano pubblico.

Diritti e doveri dello scrittore

Il successo del romanzo rilanciò la sua carriera, ma non placò la sua vena polemica. Berto sarà sempre in rotta con l’establishment letterario del suo tempo: e se è vero che scrittori, giornali e case editrici di stampo marxista considerarono sempre con sufficienza i suoi lavori, va anche detto che il nostro non era certo prudente nelle sue esternazioni. Da una parte egli bramava l’accettazione e il riconoscimento da parte di queste élite culturali. Dall’altra si schierava spesso contro tutto e contro tutti quasi per partito preso, per distinguersi dal pensiero dominante e dimostrare la propria unicità intellettuale.

Nonostante ciò, alcuni dei suoi interventi rimangono tutt’oggi tra le pagine più lucide scritte in Italia sul tema della libertà dello scrittore. Libertà totale, che rifiuta le logiche partitiche e rivendica il diritto a una letteratura non esplicitamente impegnata, ma che, tramite la narrazione dei moti interiori dell’individuo, arrivi a toccare i grandi universali dell’esistenza umana: amore, dolore, sacrificio, rinascita.

L’intellettuale tra libertà e responsabilità

Ci sono molti modi di interpretare il mandato dello scrittore (e dell’artista in genere): c’è chi difende il valore della libertà assoluta, rigettando qualsiasi forma di condizionamento esterno sull’arte, e chi invece ritiene che l’autore non possa esimersi dalla responsabilità insita nel suo ruolo, dato che le sue parole hanno il potere di influenzare (positivamente o negativamente) un grosso numero di individui. Nell’immediato dopoguerra gli scrittori italiani concepivano la letteratura come una missione, un vero e proprio strumento di denuncia e rivendicazione. Chiunque si scostasse da questo modello era tacciato di qualunquismo, accusa terribile per quei tempi. Giuseppe Berto, come sempre, aveva le idee chiare:

Per l’artista la libertà è una condizione irrinunciabile, anche dal punto di vista intellettuale. Suppongo che senza senso di responsabilità sia difficile essere scrittori, e uno può essere responsabile solo se si sente libero. Altrimenti è un servo sciocco del primo padrone che gli capita.

Oggi, al contrario, non è raro che gli artisti che intervengono nella vita politica del Paese siano violentemente attaccati e invitati a occuparsi unicamente delle proprie opere.

Non c’è pace per gli scrittori. Quella pace Berto la conobbe soltanto durante la reclusione. Come scrittore, non si sarebbe mai più sentito così libero, come quando era stato prigioniero.

Elena Brizio

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