Lo stupro secondo i tribunali di Facebook

 Lo stupro ai tempi di Facebook
Circa un anno fa usciva la notizia di una ragazzina di 13 anni, 40 Kg di peso, stuprata in gruppo per tre anni consecutivi e con essa la relativa dichiarazione del parroco Benvenuto Malara che se uscì dicendo “Non è un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese“. Ora, non dovrebbe essere così complesso capire la differenza fra la prostituzione, ch’è un accordo fra due parti, e la violenza carnale ma del resto se nell’unico libro che hai letto le donne si comprano, si lapidano e si mettono in quarantena quando hanno il ciclo, non c’è neanche da stupirsi.




In questi giorni leggo di un ragazzino di 14 anni molestato sessualmente da Kevin Spacey (sul quale nel frattempo son piovute numerose altre accuse) e molte delle reazioni che si possono vedere in giro non si discostano molto dalla visione del prete di un anno fa. “14 anni sono l’età del consenso” consenso che evidentemente non c’era, ma soprattutto come se un mese in più o in meno facesse sul serio la differenza parlando di adulti che si approcciano a ragazzini delle medie. Avete presente l’analisi logica, la densità di popolazione del Giappone, la campanella che suona e la merenda nello zaino? Ecco, stiamo parlando di questo. Io non ce l’ho con Kevin Spacey, che quantomeno ha avuto la decenza di ammettere il proprio errore, di scusarsi e perfino di prendersi del tempo per farsi curare, no, io sono disgustato dai tanti avvocati da social che pro bono si son subito sperticati in difesa dell’indifendibile. Era già successo con i due carabinieri, un paio di mesi fa, che in tanti si fossero domandati perché una diciannovenne ubriaca non  avesse gridato di fronte a un quarantenne armato, come se quello fosse il nodo della questione. Se in quel caso in parecchi si erano totalmente disinteressati dell’abuso di posizione dominante su una ragazza, stavolta siamo addirittura alla giustificazione delle molestie sui minori. Del resto il percorso era ormai tracciato: al classico “poteva starsene a casa” abbiamo prima aggiunto il codice d’abbigliamento per uscire senza subire violenze e poi con il caso Weinstein abbiamo inserito pure la data di scadenza per denunciare uno stupro; Sallusti difatti scrisse che “se denunci dopo vent’anni non sei vittima ma complice“, e la Lucarelli – personaggio di cui sentivamo davvero il bisogno – aggiunse: se “frigni 20 anni dopo” parlare di abusi “è meno legittimo”. Questo è l’humus culturale che ci circonda, un pantano dal quale,  oltretutto, se tenti di tirarti fuori vieni tacciato di bigottismo, di non essere abbastanza liberale, quando invece è proprio questa visione dell’uomo come animale perennemente in calore e incapace di dominarsi ad essere figlia d’un retaggio tradizionalista. Non è un caso che l’Italia sia stata in Europa una delle ultime nazioni ad abolire i bordelli e non è un caso che il tradimento sia considerato un peccato ma con una prostituta lo sia un po’ meno (concetto espresso perfino da Ratzinger). L’importante in questo paese è non offendere Dio, della dignità delle persone in fondo chi se ne frega. Basti pensare che per arrivare a una legge sulla violenza sessuale si è dovuto attendere il 1996, sino a quel momento lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona. Prima di quella norma, e parlo di tempi molto recenti, i processi intentati contro i violentatori erano ulteriore causa di umiliazione per le vittime, alle quali veniva chiesto come erano vestite o se avevano tenuto atteggiamenti provocatori. Oggi quei tribunali si sono spostati su Facebook.

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