Il 28 febbraio 1953James Watson e Francis Crick svelarono al mondo la struttura del DNA, una doppia elica, che ha posto le basi della biologia molecolare.
La doppia elica
La scoperta di Watson e Crick ha segnato un’epoca, lasciando una traccia indelebile nella storia della scienza e aprendo le strade a una rivoluzione scientifica tuttora in atto. Infatti, i decenni successivi sono stati determinanti per la ricerca, basti pensare all’ingegneria genetica alle moderne biotecnologie e ancora alla promettente terapia genica. Insomma, nel tempo la struttura del DNA a doppia elica, “è diventata un’icona, un simbolo potentissimo della biologia e di tutta la scienza”.
Che cos’è il DNA?
Conosciuto come l’acido desossiribonucleico è una molecola composta da tanti nucleotidi. In particolare, il DNA contiene l’informazione genetica ed è quindi una sorta di carta d’identità della nostra persona. Le unità base dei nucleotidi, tenuti insieme da legami chimici, sono tre: uno zucchero (deossiribosio ), una base azotata (Adenina, Guanina, Citosina e Timina) e un gruppo fosfato.
Il DNA è formato da due filamenti molto lunghi uniti insieme mediante legami a idrogeno, che si instaurano tra le basi azotate secondo la regola: A-T e G-C. In questo modo, si forma la cosiddetta struttura del DNA a doppia elica.
1869, la scoperta del DNA
Il biologo Friedrich Miescher isolò per la prima volta la molecola di DNA a Tübingen (Germania) in un castello medievale. Difatti, il suo laboratorio era in realtà una cucina, dove iniziò a fare una serie di esperimenti, per scoprire la composizione chimica delle cellule. Lavorò principalmente sui globuli bianchi (o leucociti), isolandoli da bende intrise di pus appartenenti ai pazienti del vicino ospedale. La scelta di questa tipologia di cellule, seppur apparentemente insolita, fu in realtà motivata e ragionevole. Infatti, i leucociti sono le cellule del sistema immunitario e, poiché aumentano in fase di infezione, sono abbondanti nelle garze applicate sulle ferite.
Durante le varie fasi di purificazione, Miescher isolò una sostanza nuova, acida e ricca di fosforo: il DNA. Poiché aveva scoperto essere nel nucleo, lo chiamò “nucleina” e, infatti, oggi è scientificamente definito “acido desossiribonucleico”. Nel corso delle sue ricerche si convinse del coinvolgimento del DNA nella fecondazione, tuttavia non riteneva avesse un ruolo anche nella trasmissione dei caratteri alla prole. Figura brillante della scienza, purtroppo morì di tubercolosi all’età di soli 51 anni, interrompendo prematuramente una carriera eccezionale. All’epoca, la sua scoperta venne pressoché ignorata, complice probabilmente la sua pessima capacità comunicativa.
La struttura del DNA prima di Watson e Crick
Nel 1949, il biochimico Erwin Chargaff dimostrò che le basi azotate, pirimidine (T-C) e purine (A -G), si inserivano nel DNA seguendo dei rapporti costanti. In particolare:
- C’è un rapporto 1:1 tra le basi puriniche (A+G) e le basi pirimidiniche (T+C) contenute nel DNA di una cellula (prima regola);
- la concentrazione di A è uguale a quella di T e la concentrazione di C è uguale a quella di G in una molecola di DNA a doppio filamento (seconda regola).
Già dal 1950, il fisico Maurice Hugh Frank Wilkins, insieme con Rosalind Franklin, nei laboratori del King’s College stava studiando campioni di DNA mediante tecniche cristallografiche a raggi X. Tale metodo di indagine, seppur molto complesso, permetteva di comprendere la struttura di macromolecole, quali gli acidi nucleici e le proteine. Infine, dai dati ottenuti intuì che la struttura del DNA fosse elicoidale.
1953, Watson e Crick
Agli inizi dell’anno, James Dewey Watson, un biologo statunitense, e Francis Harry Compton Crick, un fisico britannico, svelarono la struttura del DNA. Estremamente competitivi, iniziarono a collaborare nell’ottobre del 1952 nel Cavendish Laboratory presso il dipartimento di fisica di Cambridge, ispirandosi ai lavori di Linus Pauling. Gli anni precedenti fornirono ai due ricercatori delle ottime basi da cui partire, ma le fotografie a raggi X mostrategli da Wilkins ebbero un ruolo determinante. Infatti, tali immagini suggerivano una struttura del DNA di tipo elicoidale, sicché Watson e Crick cominciarono e ipotizzare modelli molecolari spiralizzati. Dopo diversi tentativi, giunsero finalmente alla conclusione corretta, grazie anche all’intervento del chimico fisico Jerry Donohue.
La scoperta, la pubblicazione, Il premio Nobel
Presso l’Eagle Pub di Cambridge, il 28 febbraio 1953 Watson e Crick svelarono “il segreto della vita”. Solo un mese dopo, il 25 aprile, Nature pubblicò il loro lavoro, “A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid”, utilizzando un disegno schematico del DNA, realizzato da Odile, la moglie di Crick. Quasi dieci anni dopo, il 10 dicembre 1962, “per le loro scoperte riguardo la struttura molecolare degli acidi nucleici e i loro significati per il trasferimento di informazione nel materiale vivente”, Crick Watson e Wilkins ottennero il premio Nobel per la Medicina. Eppure, tra quei nomi ne mancava uno, quello di Rosalind Franklin.
Il contributo dimenticato della scienziata dei raggi X
Nata a Londra nel 1920, Rosalind Franklin si laureò in chimica (1941) durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945), mettendo subito le sue competenze a disposizione del Regno Unito per il British Coal (BCURA). Il suo contributo le valse poi un dottorato in chimica fisica, conseguito nel 1945 a Cambridge. Due anni dopo, proseguì i suoi studi in Francia, dove l’ambiente era più aperto nei confronti delle donne professioniste rispetto all’Inghilterra. A Parigi cominciò a studiare le tecniche cristallografiche, diventando presto una delle figure più illustri nel campo, infatti, nel 1951 fu chiamata al King’s College di Londra per lavorare con il DNA.
“The dark lady”, una donna sola in un ambiente troppo maschilista
Per il suo atteggiamento brusco e intransigente, Rosalind venne presto definita “la terribile Franklin”. Tuttavia, nessuno riuscì mai a comprendere le cause del suo comportamento, prevalentemente dettato dall’essere l’unica scienziata donna in un ambiente molto maschilista e ostile. Tra il 1951 e il 1952, la Franklin perfezionò le tecniche di diffrazione a raggi X, ottenendo una serie di immagini molto nitide della struttura del DNA. Tra queste, rimase storica la “Fotografia 51”, che mostrava una distribuzione spaziale della molecola compatibile solo con una doppia elica. Wilkins, conscio delle scoperte di Rosalind, avvisò Crick e Watson, illustrando loro la foto senza il permesso della scienziata. Era il gennaio 1953, un mese prima dell’annuncio all’Eagle Pub, cui seguì la pubblicazione dell’articolo senza il nome della povera Rosalind.
La scomparsa prematura
A soli 37 anni, un tumore all’ovaio stroncò la vita di Rosalind (1958) che probabilmente si espose troppo ai raggi X. Non verrà quindi mai a sapere del premio Nobel dato ai tre scienziati, i quali nemmeno durante il conferimento del titolo citarono il nome della Franklin, anche solo per ricordarne il fondamentale contributo. Nel 1975 Anne Sayre, scrittrice e amica di Rosalind, pubblicò la prima biografia della scienziata per cercare di portare alla luce la verità, ma il suo libro non ebbe lo stesso impatto mediatico de “La doppia elica” scritto da Watson. Peraltro, questo manoscritto in più occasioni descrive Rosalind con toni spregevoli, mettendo in discussione anche le sue capacità scientifiche. Solo nel 2002, vennero poi chiariti tutti i fatti dalla giornalista Brenda Maddox nel libro “Rosalind Franklin: The Dark Lady of DNA”, il cui titolo riprende il nomignolo assegnatele nei laboratori di Oxford.
La strada sembra segnata, anche se è difficile immaginare quali sorprese ci riserverà ancora la doppia elica.
Siamo partiti dalla doppia elica per arrivare a conoscere struttura e funzionamento di quasi ogni singolo elemento del DNA. Anni di ricerche, tra vittorie e fallimenti, alla scoperta del cosiddetto “libretto di istruzioni” di ogni essere vivente. Sappiamo tanto, ma allo stesso tempo ancora pochissimo di questa molecola così affascinante. Grazie alle tecniche sempre più performanti abbiamo raggiunto risultati che, in un passato non poi così lontano, sembravano mera fantascienza. Infatti, oggi l’ingegneria genetica ci permette di manipolare il DNA, modificando i geni e quindi gli organismi viventi (OGM). Qualcosa di cui si parlava già negli anni Sessanta e che ha portato nel tempo ai successi della terapia genica e alla produzione di farmaci biologici per curare malattie un tempo mortali.
Il gene salta di corpo in corpo lungo le generazioni, manipolando corpo dopo corpo a modo suo e per i suoi scopi.
Abbiamo cominciato a modificare le cellule, poi le piante e infine gli animali: manca solo l’uomo. Siamo partiti dall’unità base, ma sapevamo bene dove saremmo voluti arrivare, sfidando in un certo senso lo straordinario meccanismo dell’evoluzione. La biodiversità attuale è il risultato di un processo lunghissimo e complesso durante il quale siamo stati soggetti ai principi del grande Darwin, che ora invece proviamo a controllare. Abbiamo scoperto come intervenire laddove la natura non ci soddisfa, aprendo così un capitolo nuovo e complesso, quello della bioetica. Un capitolo controverso, che cerca di coniugare insieme i principi spesso distanti della scienza e dell’etica.
E se l’etica rappresenta principalmente un’indagine filosofica dei criteri con cui valutiamo comportamenti e scelte, la morale invece fa riferimento all’attenzione rivolta agli aspetti soggettivi della condotta. Quindi, per la prima forse ci potrebbe aiutare principalmente la storia e la società in cui viviamo, mentre per la seconda bisognerebbe imparare a comprendere noi in cosa ci si riconosce veramente.
Ma per capire a quali valori dare priorità, occorre soprattutto capire quale tipo di persona si intende essere e spesso al genere umano questa consapevolezza fa sostanzialmente paura, perché la scienza può dare risposte alla medicina, ma non alla coscienza.
Carolina Salomoni