Il 7 luglio 1960 l’Italia fu sconvolta da un fatto di sangue. Cinque operai trovarono la morte durante uno scontro a Reggio Emilia con le forze di polizia e i carabinieri. Si opponevano pacificamente alla formazione del Governo Tambroni, il quale si coalizzò con l’Msi ed aveva ottenuto il potere nei mesi precedenti. Quest’ultimo, in un periodo di alta tensione per la politica italiana, aveva dato l’ordine di aprire il fuoco contro le manifestazioni in caso di “situazioni di emergenza”. La strage di Reggio Emilia ha segnato la storia italiana e insegna come la violenza non porti a nulla.
Il contesto storico
Il 1960 è un anno che il 26 marzo fu segnato dalla nomina a Presidente del Consiglio di Fernando Tambroni, politico della Democrazia Cristiana, prim’ancora che della Strage di Reggio Emilia. Costui, prima appartenente al Partito Nazionale Fascista, ha infatti proposto un governo monocolore democristiano con l’appoggio, però, esclusivamente del Movimento Sociale Italiano.
Allora, l’Msi era l’erede del Partito Fascista Repubblicano fondato da Mussolini e per questo riceveva molto spesso aspre condanne da parte degli altri partiti. Non solo: tra gli operai, il siffatto appoggio di questo partito rappresentava la volontà di non voler dare assolutamente voce alle loro istanze.
Il governo Tambroni stava così a simboleggiare la continuazione di una strategia economica volta ancora a favorire, a discapito di tutto, lo sviluppo economico italiano. Le tensioni, pertanto, tra la popolazione si fecero sentire sempre più fin dalla sua formazione e misure estreme si presero al suo interno per contrastare gli scioperi. La strage di Reggio Emilia ne è il segno.
Il preambolo alla tragedia
Il 6 luglio la Camera Confederale del Lavoro reggiana aveva concesso la sera uno sciopero generale nella provincia di Reggio Emilia dalle 12 alle 24. Il motivo era per i «gravi fatti avvenuti a Licata e a Roma» come recita nell’annuncio indetto al Primo Ministro.
Si riferiva alle vicende avvenute il 5 luglio a Licata nell’Agrigento, giorno in cui le forze dell’ordine, in una manifestazione, uccisero Vincenzo Napoli perché protestava contro il caro vita, e il 6 luglio a Roma, dove il prefetto vietò un corteo dei sindacati.
Vincenzo fu il primo delle sei vittime che segnarono quell’estate di soppressioni popolari avallate dal Governo, di violenza gratuita come diranno L’Ora e altri giornali. L’Ora, rivolta al prefetto Querci della Provincia di Agrigento:
«(…) Proprio così: si spara, si ferisce e si uccide. E così nello agrigentino mentre i delitti mafiosi e politici restano impuniti, mentre persino i cadaveri vengono sottratti e sostituiti da mani che restano ignote, mentre nella stessa Questura del capoluogo si svuota la cassaforte, (…) ecco la polizia di Agrigento impegnare la sua “potenza” contro una povera popolazione per offrirci alla fine un cadavere: quello di un dimostrante inerme. Prefetto Querci, che squallore!».
Similmente si ebbe a Roma senza morti, dove il corteo decise comunque di scendere in piazza e venne travolto dai carabinieri.
I fatti del 5 e del 6 luglio sconvolsero ancor più, in un contesto di continue manifestazioni, l’opinione pubblica e l’indignazione fu tale che non se ne poteva non parlare pubblicamente. Per questo motivo i sindacati organizzarono una serie di cortei nelle giornate successive, nonostante le limitazioni emanate dai Prefetti.
Dei cortei che si ebbero, la Strage di Reggio Emilia, seguita al corteo a Roma, fu quella più indelebile.
La Strage di Reggio Emilia: che cosa successe il 7 luglio di quell’anno
All’indomani dell’annuncio di CCdL, la prefettura permise lo sciopero ma proibì l’iniziativa all’aperto oltre che l’utilizzo di altoparlanti per diffondere all’esterno la protesta. Impediva così praticamente la possibilità di ogni rivendicazione politica. Ciononostante si previde un comizio nel ridotto del teatro Ariosto e 20mila manifestanti vi aderirono. Il ridotto del teatro, però, poteva accogliere solo 600 persone e molti non poterono parteciparvi.
Per questo motivo 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane si raccolsero pacificamente dinanzi al monumento dei caduti, cantando inni di protesta politica e sociale. Allora, erano severamente vietati gli assembramenti nei luoghi pubblici e perciò un reparto di 350 poliziotti, esattamente alle 16:45, li caricò senza pietà. Ad essi poco dopo si aggiunsero i carabinieri che chiusero, tra Piazza della Vittoria e i Giardini Pubblici, da ambo i fianchi gli operai ormai in fuga.
Circondati da lacrimogeni, getti d’acqua e caroselli delle camionette delle forze dell’ordine, gli scioperanti cercarono di rifugiarsi nel vicino isolato San Rocco. Nel tentativo si protessero in ogni modo con seggiole, assi di legno, tavoli dei bar e qualsiasi altra cosa che trovavano per mano. Lanciarono persino degli oggetti per allontanare le cariche della polizia e dei carabinieri.
Fu così che polizia e carabinieri, sentiti attaccati, iniziarono a sparare ad altezza d’uomo ed uccisero cinque persone: Lauro Fariolo, 22 anni, Ovidio Franchi, 19 anni, Marino Serri, 41 anni, Afro Tondello, 36 anni, Emilio Reverberi, 39 anni. Giovani ragazzi ed ex partigiani, costretti dall’allora Governo a sparare contro persone come loro, consumarono 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola come riportato nel libro Al tempo di Tambroni di Annibale Paloscia. «Alla fine risultarono crivellati tutti gli edifici che danno sulle due piazze attigue, così come molte vetrine di negozi», aggiunge Paloscia nella sua opera. La Strage di Reggio Emilia era così avvenuta.
Segni, orrori e drammatiche testimonianze della Strage di Reggio Emilia
Orrore, terrore, morte, empietà, violenza, soppressione, ingiustizia, emarginamento, insensibilità politica, fu tutto questo il 7 luglio, le giornate successive e gli anni in avvenire.
In quella stessa giornata, ci furono 23 arresti tra civili e decine di persone, tra manifestanti e non, finirono in denuncia. Successivamente, 61 dimostranti e 2 rappresentanti delle forze dell’ordine andarono alle sbarre, dimostranti la cui colpa era solo quella di aver tentato di allontanare le carice delle forze dell’ordine.
Di quella stessa giornata diversi ricordarono a distanza di anni l’accaduto. Tra questi, Reggio Emilia 7 luglio 1960 riportò vent’anni dopo l’agghiacciante ricordo che Guido Soragni, partecipante della protesta, teneva ancora fisso, atroce e rimembrante, nella sua memoria:
«(…) Un poliziotto, arrivato di corsa, sparò una raffica a bruciapelo contro un ferito, che morì sul colpo. L’altro ferito, mentre cercava di soccorrere il caduto, venne raggiunto da una raffica di mitra sparata sempre dallo stesso poliziotto (…)».
A testimoniare l’atrocità cui ha assistito Guido Soragni durante la strage di Reggio Emilia c’è persino una straordinaria quanto casuale documentazione sonora su magnetofono. 35 minuti di grida, spari, sirene d’ambulanze e polizia furono incisi su un disco musicale per volontà di Maria Macciocchi, direttrice di Vie Nuove. «Agghiacciante sparatoria, non una guerra, ma una fredda carneficina», commentò l’audio prima dell’incisione. Anche Pier Paolo Pasolini peraltro ascoltò l’audio: «il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito».
Diversi feriti delle cariche del 7 luglio, inoltre, non si presentarono in quella stessa giornata ospedale allo scopo di non farsi identificare dalla polizia.
Mario Scelba, Ministro dell’Interno del governo Tambroni, giustificò invece le cariche della Strage di Reggio Emilia con “nobili intendimenti”, come riportato dal giornale radio dell’Istituto Luce. Il fine delle cariche era infatti per lui quello di garantire l’ordine e la pace nel Paese.
Ma come si fa a sostenere l’ordine e la pace in un Paese sopprimendo le motivazioni che renderebbero alla radice stabile quest’ultimo?
È questa la domanda che dovremmo porci. Gli scioperi lanciati da organizzazioni come CCdL infatti servono anzitutto a sollevare un problema di fondo, non perché, semplicemente, si voglia creare solo instabilità. Proprio sollevando quel problema di fondo che, successivamente, viene alla luce nel dibattito politico e lo si affronta nei migliori modi.
A maggior ragione nel contesto della Strage di Reggio Emilia, caratterizzato da un notevole sviluppo economico ma da una povertà cronica diffusa e persistente, gli scioperi avevano questo fine.
Cercare invece di contrastare quest’ultimi, come ancora oggi è accaduto per esempio in Regno Unito e Francia, significa evitare quel problema di fondo. Ciò vale anche se l’obiettivo politico quale fu del governo Tambroni approvato dal Presidente della Repubblica Gronchi era quello di superare un fase d’emergenza.
Nello specifico, tra l’altro, si voleva consentire lo svolgimento a Roma della XVII Olimpiade e approvare il bilancio di Stato previsto all’epoca il 15 ottobre. In questo modo, secondo Gronchi, si sarebbe garantito lo sviluppo economico e il prestigio internazionale.
Ma lo sviluppo economico non va a migliorare le condizioni di vita dei cittadini se alla fine perdurano logiche volte a favorire una ricchezza i cui proprietari, di conseguenza, siano i ceti più ricchi. Soltanto se infatti essa viene redistribuita in tale condizione alla popolazione e utilizzata per la spesa pubblica la qualità della vita migliora. Non solo: proprio perché si ha una redistribuzione della ricchezza e un aumento della spesa pubblica, si accrescono i consumi e i servizi che favoriscono lo sviluppo e la formazione delle imprese.
È ciò che ci insegna Keynes con la sua teoria economica, la quale divenne un punto di riferimento per alcuni paesi europei in grave crisi economica. Ma in Italia persisteva ancora un’economia retrograda, fatta di pregiudizi e individualismo di una classe politica sostenitrice dei ceti più elevati.
L’obiettivo politico, quindi, che si voleva raggiungere era il segno di una politica retrograda
La strage di Reggio Emilia si ebbe infatti solo perché non ci fu un ripensamento dell’economia nazionale in senso rinnovativo, un’apertura al nuovo. Precisamente, in politica si stava perseguendo una difesa di un modello economico che tutelava gli interessi di pochi, il quale non voleva guardare oltre sé stesso sostenendo pertanto uno status quo.
Sebbene infatti esistettero in Italia partiti sostenitori di un’economia neokeynesiana, si decise una strada liberista, opportunistica, velata da retorica politica. E anziché aprire nuove strade, si preferiva legittimare una concezione dell’ordino pubblico “offensiva”, capace di contenere disordini e violenze. Nello specifico, per Scelba e il suo Governo, il motivo era quello di prevenire mobilitazioni collettive di grande portata e cercare di proteggere le istituzioni democratiche rette da un partito in maggioranza, ovvero dalla Democrazia Cristiana.
Proprio questa strada è quello che oggi ci è rimasto della Strage di Reggio Emilia, una strada che in alcun modo si è cercata di cambiare ancora per diversi anni, un’incapacità politica che non ci può, ancora oggi, non colpire singolarmente.