Siamo tutti “moderni”, accettiamo le diversità, diciamo che ci arricchiscono e che siamo pronti a viverle, ma da sempre non è così. A volte ognuno di noi è un sopravvissuto. A volte si punta il dito, non ci si chiede cosa vorrà dire poi per il soggetto preso di mira vivere e sopravvivere dopo essere stati “bollati” per una vita , senza avere possibilità di replica.
Questa è la storia di un sopravvissuto alla vita, la storia di un uomo che non ha mai smesso nonostante tutto di credere nelle amicizie, di avere la giusta grinta per continuare a vivere, anche se molte volte con tutti quegli occhi puntati addosso, con tutte quelle sgomitate date di nascosto, con tutte quelle chiacchiere spese solo per far prendere aria alla bocca, Ugo Ancillotti non ha vissuto ma ha sopravvissuto.
Questa è una storia che fa riflettere, che ci fa capire quante volte forse prima di giudicare bisognerebbe pensarci almeno un attimo. Questa è una storia che potrebbe riguardare tutti noi, una storia che lascerà indifferenti gli indifferenti, ma che farà interrogare chi invece guarda alla vita con gli occhi del cuore, gli occhi che sono abituati ad ascoltare, a scavare nell’anima, a dare a tutti una possibilità come è giusto che sia poiché dall’altra parte della barricata potremmo ritrovarci noi e stare dietro al tavolo degli imputati, non è mai semplice e tantomeno leggero.
Questa è la storia che Riccardo Ancillotti mi ha regalato una testimonianza che ho raccolto ascoltando tutte le increspature della sua anima e cercando per quanto possibile di distenderle lungo le mie parole, regalando ancora una volta una voce a chi la voce non l’ha più. Il peso del sospetto annienta i pensieri, isola dal mondo, crea delle profonde ferite. Il peso del sospetto distrugge silenzioso e si nasconde dentro a sguardi dati di sbieco che freddamente uccidono ogni giorno. Il peso del sospetto è una maledizione che nessuno dovrebbe meritare. Vi accompagno in questa lettura che mi ha resa forse migliore, che mi ha fatto vibrare le corde dell’anima perché nessuno ha il diritto di privarci della vita o di rovinarcela senza un valido motivo, senza darci ascolto, senza preoccuparsi del nostro cuore.
C’era un ragazzo che negli anni trenta soffriva di un problema medico alla mascella. Un processo infiammatorio quasi cronico. Essendo di povera famiglia contadina, i genitori facendo un grosso sforzo economico gli fecero fare una visita specialistica all’ospedale di Pisa. Qui il medico fece una diagnosi e disse: “ Ci vorrebbe un intervento operatorio, che purtroppo però può provocare il decesso del ragazzo. Diversamente può proseguire una vita quasi normale, anche fino ai venti-trenta anni… Dovete decidere voi!” E i genitori decisero per no. Il bambino però aveva udito ogni parola.
La vita della famiglia proseguì negli anni a venire come sempre tra fatiche e stenti , poi a diciannove anni il giovane partì militare. Era il 1940, e i venti di guerra cominciavano a farsi sentire. A Parma, dove svolgeva il servizio militare, un giorno comunicarono che l’Italia entrava in guerra, contro l’Albania e che quindi bisognava partire. Nell’occasione della partenza per ‘il fronte’, però gli fecero una visita medica, dove riscontrarono il vecchio problema proponendogli l’intervento chirurgico. Lui memore di quanto udito da piccolo, decise comunque di fare l’operazione e lo scrisse ai suoi genitori. La loro risposta arrivò proprio quando stava per entrare il sala operatoria. Lo pregavano di non farlo, perché era pericolosissimo, ma lui ormai aveva deciso. L’intervento ebbe esito positivo e la settimana dopo lui era già sul fronte albanese nei pressi di Scutari!
In Albania la guerra continuò per mesi, mesi e anni. Poi arrivò il settembre del 1943. L’armistizio! E i tedeschi, che erano alleati, divennero i nemici. Fu così che l’esercito tedesco disarmò le truppe italiane ed ogni soldato italiano dovette decidere se unirsi all’esercito tedesco o ‘seguire la sorte del reggimento’. Quasi la totalità dei militari italiani optò per la seconda ipotesi. Questi allora furono fatto prigionieri, caricati sui carri bestiame e trasferiti in Germania. Qui il giovane inizia la sua prigionia nel campo di concentramento di Norimberga, con trasferimento quotidiano al campo di lavoro di Reghersburg, dove i prigionieri dovevano lavorare in un’officina che produceva armamenti pesanti per l’esercito tedesco.
Spesso, quando ritornava al campo di concentramento scopriva che alcuni prigionieri debilitati dal lavoro e dalla fame, erano stati trasferiti in non si sa bene quale casa di cura da cui quale però nessuno mai ritornava. Il tempo passava e la speranza di ritornare vivi a casa si allontanava ogni giorno, fino a svanire del tutto. Per questo motivo lui, come gli altri prigionieri, smisero anche di scrivere alle famiglie, per evitare il prolungamento di un dolore che era infinito. Due anni dopo, una notte, ci fu un gran bombardamento e quando i prigionieri uscirono dai rifugi, non trovarono più i soldati tedeschi, ma gli americani che avevano invaso quella parte di Germania. Da lì iniziò il lungo ritorno in patria, tra vicissitudini, inenarrabili e mezzi di fortuna di ogni genere. Il ritorno fu una vera liberazione per tutta la famiglia e gradualmente la vita riprese come prima.
Il giovane, ormai venticinquenne, conobbe una ragazza con la quale si fidanzò, anche lei di famiglia contadina. I due si amavano e dopo nemmeno due anni decisero di sposarsi. Per motivi di lavoro fu scelta una data di fine giugno, ovvero dopo la mietitura del grano, se non che il destino era evidentemente in agguato. Una domenica mattina , quindici giorni prima delle nozze, i due giovani andarono insieme alla messa, poi ritornarono alle proprie case con l’impegno di ritrovarsi verso le diciassette del pomeriggio in paese. Il giovane pranzò con i genitori e poi tutti e tre andarono a riposare. Dopo le sedici, il giovane si svegliò, rimproverando anche la madre che non l’aveva chiamato prima. Prese la bicicletta e corse in paese, dove la gente gli corse incontro dicendogli: “ Come non lo sai ? Hanno ammazzato l’Elvira , alla fonte !”. Il mondo gli crollò addosso. Corse come un forsennato verso il luogo, era vero! La sua Elvira era stata uccisa. Sgozzata!!
E qui comincia un’altra storia. Eravamo nel primo dopoguerra. Le indagini dovevano arrivare alla conclusione in breve tempo, non si poteva pazientare. Il fidanzato dell’Elvira divenne subito l’unico indagato! Lui non aveva alibi. Il fatto che si trovasse a casa con i suoi non era una testimonianza attendibile. I genitori non possono testimoniare! Gli indizi avrebbero portato verso altre direzioni, come le impronte di scarpa da uomo trovate sul luogo del delitto, che descrivevano un percorso di fuga all’interno del bosco. Era una scarpa n. 39, mentre il piede dell’indagato era un 42, ma l’anello debole rimaneva il giovane, per l’assenza di un alibi sostenibile!
Così dall’indagine scomparivano di volta in volta tutti gli indizi che potevano essere a sua discolpa. Il processo che ne seguì fu uno di quei processi che fece scalpore all’epoca, seguito il tutta Italia e un po’ ovunque nel mondo. Divise l’opinione pubblica tra colpevolisti ed innocentisti. Iniziato a Pisa, venne trasferito a Firenze ed ebbe termine due anni dopo con l’assoluzione dell’imputato per “insufficienza di prove”. Inutile dire che la famiglia dell’imputato non aveva le risorse per ricorrere in appello e che solo grazie al fatto che i legali della difesa avevano lavorato praticamente gratis si era potuto sostenere il processo di primo grado!
Essere usciti dal carcere voleva comunque dire uscire da un incubo! In lui però rimaneva il rammarico di non essere stato assolto per non aver commesso il fatto e che l’assassino dell’Elvira era ancora a piede libero. Il tempo intanto passa e il giovane ormai trentenne incontra di nuovo l’amore e si sposa. Da questo matrimonio nel 1953 nasce un figlio, poi nel 1955, riesce grazie all’aiuto di un maresciallo dei carabinieri ed altre persone volenterose di ricercare la verità, ad ottenere la possibilità di una riapertura delle indagini. Queste sembrano subito portare in una direzione ben precisa, si arriva persino a sottoporre la possibilità di procedere all’interrogazione contemporanea di alcuni familiari della ragazza, per farne venire alla luce le gravi contraddizioni, che già erano presenti negli atti processuali.
La Procura chiede comunque per poter procedere di raccogliere qualche indizio ulteriore e per fare questo autorizza di procedere in incognito ad una eventuale intercettazione ambientale. Naturalmente, si parla degli anni 50, cioè di quando non c’erano le strumentazioni attuali!. Così fu inviata una lettera anonima, alla famiglia della ragazza, dove si diceva di avere le prove di chi era l’assassino! Contemporaneamente fingendo di eseguire una riparazione della linea elettrica venne istallato un sensore capace di intercettare le voci della casa. Destino volle che la discussione sulla lettera avvenisse proprio la sera che era in corso un forte temporale e che dopo le prime parole un fulmine facesse saltare l’impianto! La Procura a quel punto riesaminò il fascicolo e decise che era ormai trascorso troppo tempo e pertanto le indagini si chiudevano li.
Bene, quell’uomo ha atteso tutta la vita nella speranza che prima o poi qualcuno parlasse, magari in punto di morte, e dicesse la verità, una verità che gli avrebbe levato di dosso il “marchio” dell’insufficienza di prove, lui ha sempre detto: “Sono innocente come Cristo!”. La verità non è venuta fuori, l’assassino non ha un nome e quell’uomo è morto all’età di 91 anni proprio il “venerdì santo” Come Cristo.
Quell’uomo è MIO PADRE