Da schiavo a capitano, scopriamo l’incredibile storia di Michele Amatore, protagonista del Risorgimento italiano.
La storia di Michele Amatore inizia nel 1826, quando ancora non si chiamava così. Nel suo villaggio, Commi, sui Monti Nuba del Sudan, era conosciuto infatti come Quetto. Quando aveva appena 6 anni, un reggimento di truppe egiziane prese d’assalto il suo villaggio per catturare degli schiavi da rivendere. Il villaggio venne distrutto e la resistenza, guidata dal padre di Quetto, fu inutile. L’episodio viene descritto, sulla base dei racconti di Quetto, dallo scrittore Michele Lessona nel libro Volere e potere.
I soldati egiziani circondarono il villaggio all’alba in numero di circa 6000, e incominciarono un vivissimo fuoco. Gli abitanti balzarono fuori spaventati: ma subito tutti quelli che erano atti a combattere si raccolsero, e con frecce e con stili (chè non avevano altre armi) incominciarono la difesa. Era la difesa della moglie, dei figli, degli averi, di tutto, e fu disperata. Ma combattevano forse un migliaio d’uomini male armati e peggio ammaestrati, ed era troppo disuguale la lotta: quei valorosi non poterono fare altro che vendere cara la loro vita. Sulle salme dei morti guerrieri i soldati egiziani entrarono nel villaggio, e fu una vera carneficina: uccisero i vecchi, e non lasciarono che un mucchio di rovine. I superstiti, donne e fanciulli la più gran parte, furono legati e tenuti sotto custodia fino al giorno seguente. Mio padre, capo della tribù, perduta ogni speranza di vivere e di salvare la sua famiglia, piuttostochè cader schiavo di quella gente avida di sangue e di saccheggio, preferì gittarsi disperatamente nella mischia, e valorosamente morì trafitto dalle palle del cruento nemico.
L’incontro fortunato di Quetto
Quetto, il fratello e la madre vennero fatti prigionieri e, dopo una marcia estenuante, giunsero al mercato del Cairo. Gli egiziani vendettero prima la madre di Quetto e lui avrebbe di lì a poco fatto la stessa fine. Ma ecco la svolta: in quel momento finisce la storia di Quetto ed inizia la storia di Michele Amatore.
Il ragazzo riuscì infatti a liberarsi dai carcerieri per poter dare un ultimo abbraccio alla madre. Questo gesto così empatico e coraggioso colpì un uomo italiano che si trovava proprio lì. Il suo nome era Luigi Castagnone, medico personale del viceré d’Egitto, giunto al mercato in cerca di un aiutante. Dopo aver visto quel gesto, decise di comprare quel ragazzino e portarlo con sé in Italia.
Negli anni a seguire, Castagnone trattò Quetto non come uno schiavo, bensì come un figlio. Il ragazzo venne educato ed istruito perfettamente: imparò l’italiano e il dialetto piemontese. Venne battezzato e da quel momento si chiamò Michele Amatore, dal nome del vescovo che lo battezzò: Michele Amatore Lobetti. Poco dopo ottenne ufficialmente la cittadinanza piemontese.
Il soldato moro: la storia di Michele Amatore in battaglia
Nel 1848 scoppiò la prima e fallimentare guerra di indipendenza. Michele era tornato a vivere in Egitto, ma non ci pensò due volte e decise di tornare subito in Italia per combattere a difesa della patria che lo aveva adottato. Si presentò all’ufficio di reclutamento dei bersaglieri e si arruolò nella 4ª compagnia del 1º battaglione.
Prese parte a tutte le battaglie che videro nascere l’Italia e si dimostrò un soldato esemplare. Il suo valore e il suo coraggio, gli permisero di ottenere importanti promozioni e riconoscimenti. Fu, in successione, caporale, sergente, tenente e capitano. Decise di applicarsi anche nello studio del francese , dell’ingegneria e delle tecniche di costruzione.
Lo scontro con Doria Pamphilj
Nel 1849, prese parte alla Battaglia di Novara e poi si spostò verso Genova per la repressione dei moti scoppiati in quell’anno. Proprio a Genova, si trovava Domenico Doria Pamphilj, patriota genovese e fermo oppositore dei Savoia. Durante gli scontri del 1849, il suo palazzo subì qualche danno e l’uomo approfittò della situazione per incolpare i bersaglieri. Stando ai suoi racconti, i bersaglieri avevano saccheggiato la sua dimora e un certo “sergente moro”, quindi Michele Amatore, si era comportato in modo ignobile nei suoi confronti. Le accuse verranno smentite dalla stessa servitù di Doria Pamphilj, ma le calunnie continuarono. Una sera , l’uomo venne catturato da alcuni bersaglieri e Michele gli tirò uno schiaffo. Dopo questo episodio, ci fu una sorta di patteggiamento e Michele, dopo un mese di carcere, poté restare nell’esercito.
Le ultime gloriose battaglie
Nel 1859, Michele prese parte alla seconda guerra di indipendenza, combattendo nella battaglia di San Martino. Nel 1866, con il grado di capitano, combatté anche la terza guerra di indipendenza, nella quale ottenne la croce di bronzo prussiana. Sempre nel libro di Lessona, si legge:
Si mostrò nelle battaglie un leone; la sua faccia nera serviva di punto di annodamento ai coraggiosi compagni, e di terrore al nemico: parecchie volte dopo un combattimento i suoi capi corsero ad abbracciarlo. In pace era un modello di disciplina e di operosità, amor dei capi e dei compagni.
Nel 1873, ormai cieco da un’occhio, decise di ritirarsi dalla vita militare e cercò una donna, la milanese Rosetta Brambilla, con cui mettere su famiglia. Morì il 7 giugno del 1883, chiedendo di essere seppellito nella sua terra, Rosignano Monferrato. Si conclude così la storia di Michele Amatore, un uomo che avrebbe potuto odiare quell’Italia che lo aveva comprato, ma decise di combattere al suo fianco con orgoglio.