Tutto ciò che riguarda il mondo dell’itticoltura e della pesca nel mondo romano è documentato con una grande abbondanza di fonti: testi letterari, mosaici e affreschi mostrano quale spazio occupasse quest’attività in un’economia come quella del Mediterraneo antico.
Non possediamo solo immagini o testi, ma abbiamo anche i luoghi di produzione e trasformazione dei prodotti ittici, come le peschiere delle domus marittime, i cui resti impreziosiscono ancora oggi le coste dell’Italia centro-meridionale, formando un paesaggio archeologico tanto affascinante quanto ricco di storia. Allo stesso modo sappiamo che i Romani sapevano dell’esistenza dei grandi cetacei, o balene.
Uno degli elementi fondamentali della cucina romana era non a caso il celebre garum, la salsa di pesce molto gradita dai romani e diffusa in tutto l’Impero. Il maggiore centro di produzione di questo prodotto era la provincia iberica, l’odierna Spagna, dove si trovano i resti degli stabilimenti, dove la materia prima veniva lavorata e poi stivata in anfore, per essere infine caricata sulle navi e commercializzata in tutti i mercati del bacino del Mediterraneo.
Ed è proprio in Spagna, nella zona dello Stretto di Gibilterra, che durante gli scavi archeologici dell’Università di Cadice sono stati rinvenuti i resti ossei di animali, probabilmente scarti di lavorazione, che una successiva analisi del DNA ha confermato essere ossa di balena. Tra le varie specie individuate due in particolare sono oggetto della ricerca: la balena grigia (Eschrichtius robustus) e la balena franca nordatlantica (Eubalena glacialis); quest’ultima è presente soprattutto nell’Oceano Atlantico settentrionale, mentre la seconda abita nell’Oceano Pacifico, ma fino al XVIII secolo poteva essere ancora avvistata nell’Oceano Atlantico.
I reperti esaminati provengono dagli scavi di Baelo Claudia (odierna Tarifa), Iulia Traducta (Algeciras), Septem Fratres (Ceuta) e Tamuda, un castrum (ossia un forte militare romano) nel nord del Marocco, mentre un osso proviene dallo scavo di La Campa Torres, vicino a Gijòn, nel nord della Spagna. Mentre quest’ultimo sito risale all’età preromana, tutti gli altri scavi sono stati datati ai primi secoli dopo Cristo, cioè nella prima età imperiale.
L’elemento sorprendente che emerge dall’analisi è che le specie identificate, ancora oggi viventi, seppur ad alto rischio di estinzione a causa dell’uomo, ai giorni nostri non sono specie comuni nella regione dello stretto di Gibilterra: gli autori dell’articolo ipotizzano che in passato il Mediterraneo e la zona di Cadice siano stati luoghi di passaggio durante le migrazioni dei cetacei, oltre che luoghi di parto per le femmine. La decimazione dovuta all’uomo e ai predatori naturali come le orche avrebbe contribuito a far scomparire queste specie di balene da questa zona, che nell’antichità era nota per l’industria del pesce, come già ricordato in precedenza, e, data la grandezza e la specializzazione degli impianti di lavorazione, non risulta troppo improbabile l’idea della caccia ai cetacei, se l’ipotesi dei ricercatori fosse confermata da altri dati.
Non mancano d’altronde importanti fonti latine e greche a sostegno di questa tesi: Oppiano di Anazarbo, vissuto nel II secolo dopo Cristo, che alla pesca ha dedicato un intero poema didascalico, la Halieutica, e Plinio il Vecchio, nella sua monumentale Naturalis Historia. Oppiano, nel descrivere la caccia alle balene, mostra come i romani del II secolo dopo Cristo possedessero i mezzi adeguati per tale attività, anche se comunque era limitata all’area costiera: le navi romane (e così quelle greche) erano costruite per un mare chiuso come il Mediterraneo e non avrebbero mai potuto resistere alla forza dell’Oceano Atlantico, diversamente dalle navi di età moderna. Non a caso, gli esemplari cacciati in età antica e medievale erano di frequente specie che durante il loro ciclo di vita si trovavano a dover nuotare vicino alla costa.
Tuttavia questo studio, come sostiene la stessa coautrice Ana Rodrigues, ricercatrice al CEFE (Centre d’Ecologie Fonctionelle et Evolutive) dell’Università di Montpellier, non è una solida conferma dell’esistenza di una significativa industria baleniera nell’area iberica in età romana, ma comunque non esclude la possibilità che una pesca intensiva da parte dell’uomo sia stata la concausa della scomparsa della balena grigia e della balena franca nordatlantica dal Mediterraneo. Inoltre, la tassonomia dei grandi cetacei è molto recente e nei testi antichi la parola latina balaena e la corrispettiva greca kétos hanno un significato molto ambiguo e indicano animali diversi tra loro, talvolta anche mostri marini fantastici.
Lo studio è consultabile su Proceedings of the Royal Society B.
Barbara Milano