All’inizio degli anni ’20 l’Europa, appena uscita da una guerra sanguinosissima, era percorsa da tensioni e ingiustizie, a cui non si sarebbe trovato rimedio. Solo gli artisti seppero reagire alla carneficina della Prima Guerra Mondiale. Con le avanguardie il modo di concepire le arti venne rivoluzionato, partendo dalla riappropriazione di quella libertà, che di lì a poco sarebbe stata schiacciata nuovamente dal nazionalismo guerrafondaio di fascismo e nazismo.
Intanto, dall’altra parte dell’oceano, quando il cinema era ancora muto, il mito di Hollywood cresceva sospinto da investimenti faraonici, con le sue promesse di perfezione. Un’industria del cinema che riempiva le sale con film d’evasione, storie romantiche e d’avventura, a cui il pubblico si abbandonava per inseguire i propri sogni.
I registi del Realismo
Difronte al grande spettacolo hollywoodiano, dove finzione e lieto fine erano la regola, un gruppo di registi ribelli sfidò il sistema, segnando un periodo irripetibile nella Storia del Cinema.
I primi a farlo furono gli autori realisti. Che intravidero nella settima arte la possibilità di catturare la realtà e di renderla splendida, emozionante.
Misero in discussione il linguaggio del cinema romantico e spettacolare dei primi anni ’20, codificato nelle luci morbide, nella poca profondità, nel grande utilizzo di effetti. Scrostarono la finzione dalla pellicola. Abolirono i lustrini e perfino il trucco, segnando quello che fu solo l’inizio della ribellione contro il cinema romantico.
Forse ispirati dai primi documentari, come Nanuk l’esquimese realizzato nel 1922 da Robert Flaherty , decisero di utilizzarne il realismo per sabotarne gli artifici.
Von Stroheim e Vidor: i ribelli di Hollywood
Il primo a sfidare l’industria cinematografica di Los Angeles è Erich Von Stroheim. Austriaco naturalizzato statunitense, comincia la sua carriera come attore, per poi dedicarsi definitivamente alla regia. Nel film del 1924, Rapacità, racconta la disintegrazione di un matrimonio. La moglie vince alla lotteria. Il denaro corrompe il suo animo e quello di suo marito. Lei diventa sempre più avida. Lui si trasforma in un alcolizzato, in un uomo violento che comincia a picchiarla. Von Stroheim mostra senza veli l’agonia della donna, fino al suo omicidio per mano del suo consorte.
Nella scena finale, girata nella Valle della Morte, l’uomo ammazzerà un suo rivale in amore, a cui però è ammanettato, segnando così anche il suo destino. La scena si tinge interamente di giallo, colore scelto nel corso del film da Von Stroheim per caratterizzare metaforicamente il denaro. La storia, così contraria ai canoni di Hollywwod, non verrà vista di buon occhio dai produttori. Il suo naturalismo gli varrà come marchio d’infamia. E da quel momento la classe dirigente dell’industria cinematografica gli impedirà in tutti i modi di lavorare.
L’altro grande ribelle di Hollywood è King Vidor. Nel 1928 con La folla racconta l’America degli anni ’20 con un realismo mai usato prima, facendone il dramma a sfondo sociale più importante dell’epoca. Il film è la storia di una normale coppia di coniugi che vive a New York, la cui vita viene sconvolta dalla morte della loro unica figlia.
Senza scenografie e costumi sontuosi, Vidor spinge la recitazione naturalistica degli attori molto più in là di quanto sia mai stato fatto prima. La scena in cui riprende con un’inquadratura fissa la moglie nella sua disperazione è l’esempio lampante delle sue scelte stilistiche.
Il film non ha un lieto fine. Ma i produttori lo pretendono, imponendogli di girare sette finali con altrettante sfumature di ottimismo. Il realismo del film non si limita ai personaggi. Vidor è stato il primo a raccontare New York, anche con l’ausilio di cineprese nascoste. Ha mostrato l’emergere della società di massa, la vita della gente comune in una metropoli, l’energia cinetica delle città. Un riassunto e allo stesso tempo un’anticipazione delle tematiche affrontate della altre avanguardie.
Il realismo spirituale di Dreyer
Comprendere profondamente la realtà e semplificarla per renderla più chiara di prima. Questa era l’idea di cinema di Carl Theodor Dreyer.
Il regista danese è stato il maestro della scenografia ridotta all’essenziale, come le chiese protestanti in cui si è formato.
Figlio di un rapporto illegittimo, fu adottato dalla famiglia Dreyer ed educato nel nome dei più rigidi principi luterani. L’austerità e il rigore delle sua formazione sono chiaramente rintracciabili nelle sue opere.
Dreyer sfida il cinema tradizionale romantico con austerità spirituale. Gira i suoi film nella luce naturale perché cerca la purezza protestante. Il suo uso del bianco è un vero e proprio gesto sovversivo. Il cinema secondo Hollywood deve essere decorativo e pieno di dettagli. Dreyer gli contrappone la semplicità, la spiritualità e la serietà che sono attributi poco commerciali.
Basta una scena del suo capolavoro, La passione di Giovanna d’Arco del 1928, per ritrovare condensati i suoi principi estetici. Giovanna d’Arco ha appena firmato l’abiura per salvarsi la vita. L’attrice Renée Falconetti, nel suo unico film, è inquadrata solo con primi piani. Senza trucco e con i capelli rasati nella scena precedente. L’immagine è senza profondità, senza scenografie e senza ombre, per cogliere la protagonista nella solitudine delle sue lacrime, al cospetto del suo dio.
Le riprese avvengono in un silenzio solenne, creando un’atmosfera talmente intensa che gli stessi elettricisti cominciano a piangere di commozione. I muri sono dipinti di rosa per non distrarre dal volto. E in nome del realismo le parole dell’attrice sono quelle pronunciate dalla vera Giovanna d’Arco. Un momento emblematico del lavoro di sottrazione di Dreyer che rende la scena monumentale.
Ma le sue innovazioni, assieme a quelle di Vidor e Von Stroheim sono solo l’inizio della rivoluzione. A loro si affiancheranno i registi francesi, tedeschi, russi giapponesi e cinesi. Altri ribelli che vedranno nella pellicola nuove possibilità. Nuove scoperte, che faranno degli anni ’20 il più grande decennio della storia del cinema.
Michele Lamonaca