Storia dei manicomi in Italia. La gabbia ideale per chi era diverso e disobbediente

manicomi in Italia

I diversi, da sempre, sono protagonisti di pregiudizi. Diventa diverso chi non si comprende. E la mancata comprensione, comporta la paura. Così, chi appare diverso dal comune, da ciò che viene ritenuto normale, diventa motivo di pericolo.

I manicomi in Italia furono vere e proprie gabbie. Prigioni soffocanti in cui rinchiudere i diversi, gli irregolari, i matti. Luoghi in cui era possibile assistere ad un’infinita sfilata di personalità, storie e patologie. A finire lì, non era solo chi soffriva di malattie estenuanti, ma anche chi risultava di troppo, un fastidio, una vergogna di cui liberarsi. Da dimenticare per sempre.

In Italia, a partire dal XV secolo, vennero istituiti gli ospedali psichiatrici. L’obiettivo era quello di liberare la società da persone spaventose, i cui misteri e problemi andavano svelati, studiati e addomesticati. In genere, nell’Antichità e nel Medioevo, la malattia mentale trovava una spiegazione attraverso l’intervento del Divino o, al contrario, del Demoniaco. Ad incoraggiare la costruzione dei manicomi in Italia, infatti, non saranno solo i futuri luminari della psichiatria, ma anche i cittadini, le amministrazioni provinciali e gli uomini di Dio negli ordini monastici. Non è un caso che molti manicomi sorgeranno proprio in vecchi conventi, piuttosto che in sezioni psichiatriche annesse ad ospedali.

La legge Giolitti del 1904: gli alienati che creavano scandalo

La regolamentazione di tali ospedali si verificherà solo molto tempo più tardi, nel corso del 1904, attraverso la legge Giolitti n. 36. I numeri dei matti saranno destinati ad aumentare. La legge, infatti, prevedeva la possibilità – accolta con particolare soddisfazione – che l’autorità locale potesse ordinare, in maniera provvisoria, il ricovero in manicomio di qualsiasi soggetto sulla base di due requisiti: una certificazione medica e il presupposto d’urgenza. Quest’ultimo, permise facilmente alle forze di polizia di intervenire nei confronti di chiunque si rivelasse particolarmente fastidioso, invadente e scomodo. Ciò che si creò, nei primi anni del Novecento, fu una taciuta alleanza tra i professionisti della psichiatria ed i tutori dell’ordine. Attraverso la legge Giolitti venne riconosciuta e ufficializzata anche la funzione pubblica della psichiatria e questo consentì l’arresto e il ricovero di alcolisti, paralitici, omosessuali e chiunque potesse essere motivo di vergogna, pericolo e innesco di scandali.

Si sancirà lentamente, ma con costanza, il binomio tra diversità e pericolo.

Slegare i matti e legare le carte: il progetto del Mibact

Voci che sembravano destinate ad essere dimenticate, segregate tra quattro mura ammuffite, abbandonate o ristrutturate, torneranno come echi di fantasmi.

Attraverso il progetto del Mibact, “Carte da legare. Archivi della psichiatria in Italia”, sarà possibile ascoltare le voci degli emarginati. Presentato nel complesso di Santo Spirito in Sassia di Roma, il progetto archivia, organizza e rende disponibile a chiunque, tramite il sito online, la storia dei manicomi in Italia. Il tutto comprende, a partire dai primi anni dell’Ottocento sino agli anni Sessanta del Novecento, cartelle cliniche, statistiche, diagnosi, poesie e romanzi di pazienti.

Tutti i documenti disponibili mostrano, in modo analitico e per questo spiazzante, come “i matti” fossero anche e, soprattutto, gli irregolari. Donne considerate sfacciatamente erotiche, affette da depressione, eccessivamente chiacchierone; bambini rimasti orfani o troppo poveri, vivaci e irrequieti o, ancora, oppositori politici, etichettati come mazziniani, anarchici o repubblicani.

Molte ragazze finirono internate per motivi legati al Mal d’amore, alla tristezza per una relazione giunta al termine. Altre furono rinchiuse perché considerate lascive, additate come deviate perché non aderenti al modello femminile dell’epoca. Tra le numerosissime storie di donne ritenute pazze, folli, da smontare e riparare, vi sarà anche Violet Gibson, protagonista dell’attentato ai danni di Benito Mussolini, il 7 aprile del 1924. Violet Gibson verrà rinchiusa in un manicomio, vivendo il suo personale e invalicabile inferno non solo per l’attentato fallito, ma anche perché priva del desiderio di costruirsi una famiglia e avere figli. Inaccettabile, sinonimo di follia, ai tempi, per una donna.

Con la Grande guerra, durante gli anni Venti del Novecento, crebbero progressivamente i ricoveri di giovani soldati. Quello che oggi viene riconosciuto come stress post traumatico, al tempo venne visto come un chiaro segno di squilibrio mentale.

Addomesticare il malato: la violenza come cura

Nei manicomi il malato non veniva curato, si addomesticava con la violenza. Gli psicofarmaci non esistevano: saranno inventati solo dopo il 1950. Le tecniche utilizzate, per tenere sotto controllo i comportamenti degli internati, avevano poco di piacevole. Nella loro rieducazione i malati potevano essere rinchiusi, legati, bastonati, abusati. Vittime della sperimentazione di nuove tecniche, nel corso del Novecento, si effettueranno malarioterapie, elettroshock ed esportazioni di organi. Tutte tecniche ritenute efficaci, in particolar modo, per la cura della schizofrenia. Per gli oppositori politici, invece, adatta era ritenuta la sterilizzazione forzata.
Nel corso del 1922 a queste tecniche se ne aggiungeranno di nuove.




Si introdusse la tecnica del sonno profondo indotto con i barbiturici e si sperimentò la lobotomia trans orbitale, che divenne in breve tempo di gran lunga popolare. Questa consisteva nella recisione delle connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo, causando nell’individuo un radicale cambiamento della personalità e gravi problemi mentali. Ad essere sottoposta ad un intervento di lobotomia, all’età di soli 23 anni, vi fu anche Rosemary Kennedy, sorella di Robert e John Fitzgerald.

Nata con alcune disabilità dovute a complicanze durante il parto, si cercò di porvi rimedio attraverso la lobotomia. Svoltosi nel 1941, l’intervento avvenne senza praticare alcuna anestesia con l’unica richiesta, fattasi a Rosemary, di cantare, di raccontare storie e di non fermarsi mai. Rosemary però, ad un certo punto si fermò, diventando lo spettro di sé stessa.
Vivace, intelligente, dotata di spiccata sensibilità, libera e disinvolta – com’è possibile evincere da alcuni suoi diari privati – Rosemary perse le proprie capacità verbali, la facoltà di camminare e l’uso di un braccio. Niente più storie, niente più canzoni da cantare.

L’intervento fu voluto fortemente dal padre, Joseph Patrick Kennedy, che lo tenne nascosto al resto della famiglia, preoccupato per gli sbalzi d’umore della figlia e per la sua condotta sessuale. In realtà, con ogni probabilità, Rosemary soffriva solo di dislessia.

Ovunque, in ogni manicomio sparso sul territorio nazionale, le condizioni igienico sanitarie erano pressoché inesistenti. I pazienti erano malnutriti, gli ambienti sporchi, il sovraffollamento delle strutture mal gestito. Si arrivò a contenere anche il doppio degli ospiti consentiti, lasciando molti dei pazienti privi anche di un letto su cui dormire.

I matti disobbedienti del Regime fascista

Il fascismo si servì efficacemente dei manicomi come minaccioso strumento di repressione e spietata arma politica.

Uno degli strumenti a disposizione era il cosiddetto ricovero coatto, non altro che un ricovero obbligatorio. In genere, lo si utilizzava soprattutto nei confronti di oppositori politici, ma non solo. Procedendo senza alcuna commissione provinciale, bastava una segnalazione o un’ordinanza di pubblica sicurezza, accompagnata da un certificato medico, per procedere all’internamento. Chiunque non si conformasse alle regole stabilite si trasformava in un potenziale, nuovo, matto: alcolisti, prostitute, vagabondi. Pericoli che potevano minare la plastica, rigida omologazione, che il fascismo mirava a costruire.

Un ulteriore strumento utilizzato dal regime era la persecuzione psicologica dei soggetti ritenuti pericolosi. L’obiettivo era quello di far assumere, a chi veniva preso di mira, atteggiamenti paranoici reali, cosicché il ricovero obbligatorio nei manicomi diventasse l’unica scelta possibile per la risoluzione del problema.

La famiglia segreta di Mussolini

Lo stesso Mussolini, in prima persona, rappresenterà l’esempio implacabile dell’utilizzo dei manicomi in Italia come strumento personale. Emblematica è la storia di Ida Dalser, prima moglie, sebbene non ufficiale, del Duce.

Vissuta come una scheggia impazzita, vista come potenziale pericolo per la propria carriera politica e sostituita con Rachele Guidi, Ida verrà internata dapprima nel manicomio di Pergine Valsugana e in seguito in quello San Clemente a Venezia, nel 1926. Quest’ultimo, sarà lo stesso posto in cui morirà a causa di un’emorragia cerebrale. Il luogo in cui il suo corpo fu seppellito, ancora oggi, è sconosciuto. L’idea più plausibile è che fu gettata in una fossa comune.

Dalla moglie di cui volle liberarsi, tuttavia, Mussolini ebbe un figlio: Benito Albino. Nato a Milano nel 1915, inizialmente prese il cognome di sua madre. Verrà riconosciuto dal padre nel 1916, acquisendo così il cognome Mussolini, sebbene l’atto di riconoscimento non sarà mai ritrovato.
Mussolini non si occuperà mai direttamente di suo figlio, difatti Benito Albino fu privato del rapporto con la figura paterna. Tuttavia, rimarrà sempre in contatto con suo zio, Arnaldo Mussolini, che per suo nipote nutrì dell’affetto autentico.
A seguito del ricovero forzato della madre, inizialmente, Benito Albino frequentò un collegio per poi essere affidato al suo futuro tutore, Giulio Bernardi, commissario prefettizio di Sopramonte, da cui prenderà anche il cognome. Il cognome Mussolini gli fu revocato e mai più riconosciuto.

Arruolatosi nella Regia Marina, si imbarcò in una spedizione in Cina, occasione in cui rivelò più volte, ai proprio compagni, della sua parentela col duce. Richiamato in patria con la falsa notizia della morte della madre, fu rinchiuso anch’egli in un manicomio. Morirà per consunzione il 26 agosto del 1942, nel manicomio di Mombello di Limbiate, luogo in cui era stato rinchiuso. Il suo corpo, come quello della madre, non sarà più ritrovato.

Dal buio del Dopoguerra alla luce della legge Basaglia

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il fascismo aumentò l’internamento di oppositori politici, prigionieri, giovani che fuggivano dalla leva, dalle trincee, dalla guerra. E non terminò neanche alla caduta del regime. Nei mesi successivi alla liberazione, molti furono i partigiani internati nei manicomi in Italia, a seguito di gravi accuse su delitti compiuti durante la Resistenza. A conoscere il carcere, durante la Resistenza, sarà lo stesso Franco Basaglia.

Della sua esperienza, dirà: “Quando sono entrato per la prima volta in carcere ero studente di medicina e lottavo contro il fascismo (…). C’era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri (…). Quando sono entrato per la prima volta in manicomio ho avuto quella stessa sensazione (…) ho avuto la sensazione che quella fosse un’istituzione completamente assurda, che serviva allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese. A questa logica assurda, infame del manicomio, noi abbiamo detto no”.

Nel 1961 Basaglia vinse il concorso per l’ospedale psichiatrico di Gorizia, in cui si trasferì, poco dopo, assieme alla propria famiglia. Fu lì che iniziò ad attuare nuove regole: abolì le contenzioni fisiche e l’elettroshock, inaugurando un nuovo rapporto col paziente, basato sull’ascolto, sul sostegno morale e sul potere del dialogo. Otto anni dopo, nel 1969, Basaglia fu chiamato a Parma, presso il manicomio di Colorno, attuando anche lì i propri metodi e principi.

Il percorso di Basaglia fu pieno di diffidenza: le nuove metodologie adottate destavano sospetti tra il personale, così come nelle istituzioni. Così, si dovrà attendere il 1978 per l’ottenimento della legge numero 180, meglio conosciuta proprio come legge Basaglia.
Nel documentario Rai “I giardini di Adele”, il giornalista Sergio Zavoli porrà una domanda diretta a Franco Basaglia: “È interessato più al malato o alla malattia?” e la riposta di Basaglia sarà netta, chiara, inequivocabile “Oh, senza dubbio al malato”.

Così, al malato, confinato in luoghi chiusi e dimenticati, spogliato di ogni dignità, verrà restituita la propria umanità. I manicomi in Italia verranno chiusi.

Attraverso la legge Basaglia si istituiranno servizi di igiene mentale pubblici, si creeranno servizi territoriali destinati alla cura di persone con disturbi psichici, avverrà la restituzione del diritto di cittadinanza ai malati internati negli ex manicomi e si renderà l’Italia il primo paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici.

La paura del diverso oggi e la stigmatizzazione della malattia mentale

Ancora oggi il diverso spaventa. La malattia mentale è motivo di disagio, non solo per chi ne è affetto, ma anche per chi la vive nello spettro di chi ama, conosce e frequenta.

Le malattie mentali sono spesso invisibili, subdole, diffidenti. Non vogliono che il corpo che abitano possa chiedere aiuto. Sono affezionate alla sua mente, ai suoi mostri, ai traumi seppelliti sotto strati di pelle e apparenze. Costruiscono la propria casa, l’arredano, la rendono comoda. E parlarne, così, diventa sempre più difficile. Sicuramente, ulteriori motivi di difficoltà sono i numerosi pregiudizi avvolti attorno alla malattia mentale: finzione, ricerca di attenzioni, vittimismo, pazzia. Il più delle volte espressi per ignoranza, mancata empatia e poca intelligenza.

Eppure, la malattia mentale non è così lontana, distante. È più comune – e preoccupante – di quanto piaccia credere. Un solo esempio è dato dall’enorme numero di domande inviate per la richiesta del Bonus psicologo, che prevede un numero, però, limitato di beneficiari.

Nel complesso, il diverso spaventa ancora. Ciò che non si comprende, lo si vuole estirpare.

Illuminanti, in tal senso, sono ancora le parole di Bersaglia: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”.

Angela Piccolomo

 

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