Con lo stop della Corte Suprema degli Usa all’affirmative action, le università non potranno più prendere in considerazione la razza come criterio per far iscrivere gli studenti. La decisione dei giudici federali riporta all’attenzione la complessa questione della tutela delle minoranze etniche nella società americana. Senza la “discriminazione positiva”, il rischio è che il livellamento razziale nei campus avvantaggi sempre più le maggioranze bianche.
La sentenza di qualche giorno fa con la quale la Corte Suprema degli Usa ha stabilito lo stop all’affirmative action (la discriminazione positiva che mira a promuovere la partecipazione di persone con certe identità etniche, di genere, sessuali e sociali in contesti in cui sono minoritarie e/o sottorappresentate) conferma come nel mondo non siamo (ancora) tutti uguali.
Con un voto di 6 a 3, la Suprema Corte degli Stati Uniti ha cancellato le clausole d’ammissione agli atenei che dal 1978 permettevano ai college di prendere in considerazione la provenienza etnica per assemblare un corpo studentesco diversificato. Per tutti e sei i giudici conservatori della corte, le politiche di “discriminazione positiva” delle due università violavano la costituzione, discriminando i candidati asiatici americani e quelli bianchi. Le tre giudici liberal, invece, si sono opposte, e la giudice Ketanji Brown Jackson, prima donna afroamericana a far parte della Corte suprema, ha definito la decisione «una vera tragedia per tutti».
I casi di Harvard e Chapel Hill UNC
Nel 2014, Students for Fair Admissions aveva intentato due cause legali per contestare la legalità delle ammissioni all’Università di Harvard e all’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill. Il querelante era un gruppo organizzato dall’attivista legale Edward Blum, noto stratega legale conservatore, da sempre impegnato contro l’azione affermativa.
Il gruppo aveva un programma esplicito, ovvero porre fine alle preferenze razziali nelle ammissioni universitarie. Negli anni, i tribunali di grado inferiore si sono pronunciati contro il querelante in entrambe le cause, confermando le pratiche di ammissione nelle due università. Ma adesso l’ultima parola spettava alla Corte Suprema che ha emanato il suo verdetto mettendo fuori gioco la norma dell’azione positiva.
La sentenza dell’alta corte, attraverso le parole del giudice capo John G. Roberts Jr. ha stabilito che l’Università di Harvard e l’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill considerano il criterio della razza per l’ingresso nei college in contrasto con la promessa della Costituzione che deve garantire un’ uguale protezione a tutti i cittadini americani. Lo «studente deve essere trattato in base alle sue esperienze come individuo, non sulla base della razza» ha scritto il giudice.
Quanta diversità razziale c’è oggi nei campus americani?
La regola dell’affirmative action non è mai piaciuta alla destra americana. Nella prospettiva dei conservatori americani, le ammissioni selettive, basate su una discriminazione razziale inclusiva, rappresentano un gioco a somma zero che agevola soltanto i gruppi etnici sottorappresentati come i candidati neri e latini, penalizzando i “veri” meritevoli, che sono studenti bianchi o asiatici americani.
Ma per avere un’idea più chiara sulla questione, è importante capire com’è distribuita oggi la diversità razziale nei campus americani per vedere se l’abolizione dell’azione affermativa non influenzerà più di tanto la stratificazione etnica ad oggi presente.
I dati raccolti da un consorzio federale che racchiude l’Amherst College, l’Università del Michigan e la Wake Forest University, mostrano come nel 2021, circa 80 college americani abbiano ammesso meno del 25% dei loro candidati universitari. All’interno di questo gruppo, i differenti sottogruppi composti in base alla provenienza etnica dei candidati, mostrano come circa il 6% degli studenti universitari nel 2021 fossero neri o afroamericani, il 6% multirazziali, il 13% ispanici, il 19% asiatici americani e ben il 41% bianchi mentre il restante 12% era rappresentato da studenti internazionali. Fin qui, i dati dimostrano, quindi, come i timori dei critici dell’azione affermativa siano del tutto infondati.
La decisione dell’alta Corte statunitense è lo specchio di una società endemicamente segregata
La maggioranza conservatrice dei giudici dell’alta corte federale ha semplicemente picconato un’eredità storica del movimento per i diritti civili degli anni ’60, nonostante l’analisi dei dati interni di Harvard durante la causa avesse già dimostrato che la percentuale di studenti neri ammessi nelle università sarebbe scesa negli anni dal 14% a circa il 6%, senza le tutele garantite dall’azione positiva.
In diversi stati, le università pubbliche in cui vige il divieto dell’azione positiva – tra cui California, Florida e Michigan – non sono state in grado di trovare delle alternative realmente efficaci per garantire la diversità razziale dei candidati. In particolare, l’università del Michigan e l’università di Berkley, in California, hanno avvertito la Corte Suprema di aver provato molte tecniche neutrali per raggiungere l’obiettivo, senza ottenere, però, risultati importanti.
E se già nelle principali università americane – quelle più competitive con marchi di fama globale – la diversità razziale fatica ad essere perseguita su più dimensioni senza danneggiare il merito o colpire la rappresentatività delle minoranze etniche, nei college più piccoli le conseguenze della sentenza della corte suprema potrebbero essere anche più gravi del previsto.
Il caso del Bates College nel Maine, fondato nel 1855 dagli abolizionisti, è emblematico. Il suo primo presidente nero, Garry W. Jenkins, appena entrato in carica, si è detto molto preoccupato dal risultato della sentenza. Rispetto ai 1.800 studenti di Bates, i dati mostrano come la rappresentanza degli afroamericani sia soltanto del 6% mentre il 7% è classificato come multirazziale e l’8% come latino. D’ora in avanti, la scelta sarà, dunque, tra il rispettare la legge e il rinunciare alla salvaguardia della diversità delle minoranze sottorappresentate.
Tommaso Di Caprio